Sentimental Value, il già acclamato ultimo lavoro del regista – è una delle star della GenZ meglio attrezzate nel muoversi sul confine tra industria e indie, malinconico minimalismo e consapevolezza commerciale, Sofia Coppola e Biancaneve. E quando sceglie di indossare quella maglietta sa di rivolgersi a due mondi.

L’uno parla alla nicchia cinefila, quasi a voler certificare la consacrazione transgenerazionale e globale del cinquantenne regista norvegese, che dopo almeno tre lustri di grandi film è stato lanciato definitivamente dal cult La persona peggiore del mondo (2021). L’altro riguarda Charli XCX, la popstar della “brat summer” che, durante la sua performance al Coachella, ha proiettato sullo schermo alcune espressioni evocative, tra le quali, appunto, “Joachim Trier Summer”. A determinare l’adesione a un registro intimo, la rivendicazione della vulnerabilità, la voglia di tenerezza: dopo l’estate delle “brat” – parola dell’anno secondo il Collins Dictionary che significa più o meno “ragazzaccia” e indica la volontà di fare qualcosa di indisciplinato senza perdere l’ironia e la leggerezza – ecco quella degli introversi, dei sensibili, dei “ragazzi speciali”.

Cannes 78, il photocall di Sentimental Value
Cannes 78, il photocall di Sentimental Value
Elle Fanning (foto di Daniele Cifalà)

In fondo è anche il motivo del successo imprevisto e sorprendente di Lucio Corsi, che dice “quanto è duro il mondo per quelli normali che hanno poco amore intorno o troppo sole negli occhiali”. Sarà, ma l’impressione è che il trend non sia esploso (un po’ anche perché Trier non è un vero fenomeno globale) perché riguardi solo una delle tante nicchie del nostro tempo. E perché, tutto sommato, esiste già da anni: è la “Éric Rohmer Summer”.

Più di François Truffuat, comunque sempre sulla cresta dell’onda, e più di Jean-Luc Godard, eterno nume tutelare di un certo modo di intendere il cinema e dunque la vita, è incredibile come tra gli autori francesi del Novecento sia proprio Rohmer quello che cresce di più col tempo, tra i pochissimi capaci di rinnovare il proprio pubblico (dai quarant’anni in giù), punto di riferimento per tantissimi registi contemporanei.

Gli eredi, appunto: in quanti hanno amato Chiamami col tuo nome di Luca Guadagnino, uno dei rari e veri classici del terzo millennio, senza sapere quanto fosse riconoscente all’estetica, all’universo, all’immaginario di Rohmer (e certo di Maurice Pialat, ma non divaghiamo)? Per non parlare degli allievi, Olivier Assayas in primis nonché Emmanuel Mouret, e dei “nuovi” autori che ne aggiornano la lezione, da Jonás Trueba a Kit Zauhar, di chi fa altro (la cantautrice Clio con la canzone Éric Rohmer est mort) e soprattutto degli utenti social (non necessariamente content creator) che riempiono timeline, feed e storie con frame dei film di Rohmer, sottolineandone la potentissima “instagrammabilità” (citiamo qualche profilo: rohmerfits, rohmercollection, ericrohmerfilms, eric_rohmer) e per non parlare di tutto ciò che ruota attorno alle infinite possibilità di Letterboxd (vogliamo chiamarla “generazione MUBI”?).

L'amico della mia amica
L'amico della mia amica

L'amico della mia amica

E la cosa straordinaria di questa eterna estate di Rohmer è che tutto avviene attraverso il cinema: in qualche modo il dato biografico c’è sempre, d’accordo, ma è meno esplicitato rispetto a un Truffaut, e il privato di questo autore schivo e appartato non ha certo influenzato la ricezione dell’opera.

Se il primo livello della sua instagrammabilità è dovuta essenzialmente al visual appealing (i colori pastello, la costruzione delle inquadrature, i corpi giovani che se non in costume o a petto scoperto sono vestiti apparentemente casual con cardigan di cashmere o ampie camicie di lino, calzano mocassini o sandali, indossano cappelli di paglia o da pescatore), è sul secondo livello che si innesca il riconoscimento dell’utente: le immagini – e dunque il cinema – di Rohmer trasmettono la nostalgia per qualcosa che forse non abbiamo mai vissuto, il rifugio nella tranquillità mentre il mondo corre, la possibilità di specchiarsi in situazioni così comuni da farci passare in pochi istanti dalla commozione all’eccitazione.

Pauline alla spiaggia
Pauline alla spiaggia

Pauline alla spiaggia

È il grande romanzo sentimentale di un autore che ha ragionato per capitoli (Sei racconti morali dal 1962 al 1972, Commedie e proverbi dal 1981 al 1987, Racconti delle quattro stagioni dal 1990 al 1998) senza mai cedere al marketing o alle aspettative (ci sono suoi film che sfuggono alla fortuna postuma, dal teorico cavalleresco Il fuorilegge al thriller antinazista Triple Agent – Agente speciale).

Il rischio è pensare a Rohmer solo come narratore e osservatore delle estati della nostra vita, dalla villeggiatura della borghesia intellettuale in La collezionista a quella più stuzzicante di Il ginocchio di Claire fino alle peripezie di Pauline alla spiaggia, alle trasferte last minute di Il raggio verde, ai quadrilateri vacanzieri di L’amico della mia amica, alle triangolazioni erotico-sentimentali di Melvil Poupaud in Un ragazzo, tre ragazze (lo schematico titolo italiano di Conte d’été).

Il raggio verde
Il raggio verde

Il raggio verde

Ma è difficile trovare uno così preciso nel definire il carattere più profondo dell’estate, in bilico tra la dolce noia del galleggiare e la vivace attitudine al flirtare, la promessa dell’effimero e il distacco dalle mode (curiosamente i personaggi di Rohmer sembrano sempre estranei alle nuove tendenze, forse addirittura le ignorano), la propensione a una quieta allegria e la vocazione alla malinconia. E poi le chiacchiere, quante chiacchiere, un po’ filosofiche e un po’ vacue, sempre indispensabili per provare a capire chi siamo e cosa vogliamo. E, sopra ogni altra cosa, la struggente beatitudine dell’essere giovani.

Perciò La collezionista regge al tempo che passa, sia per come descrive l’impaccio spavaldo di un quarantenne messo alla prova sia per l’irresistibile e impenetrabile mistero che emana l’eroina titolare, che Rohmer presenta in riva al mare come una sorta di creatura acquatica (“Forse non ho quello che voglio, ma so cosa voglio”).

Un ragazzo, tre ragazze
Un ragazzo, tre ragazze

Un ragazzo, tre ragazze

E perciò Un ragazzo, tre ragazze, un film che Rohmer ha girato a settantacinque anni ripensando al proprio passato, continua a vivere nel cuore di nuovi spettatori, con quell’aspirante artista romantico e disordinato, impacciato e seduttivo, profondamente superficiale e amabilmente irrequieto, che si sente trasparente e mentre lo dice diventa visibile (“Sento che tutti intorno a me sono vivi tranne me”) diventando canone di un certo modo di essere maschi (il modello del “sad boy” oggi in voga tra Josh O’Connor e Paul Mescal).

Ma la Rohmer Summer brilla anche nell’indipendenza delle sue eroine così eleganti e così “brat” (Le notti della luna piena, Il bel matrimonio, Racconto di primavera, Incontri a Parigi), nel rifiuto dei rituali imposti dal consumismo (Il raggio verde, L’amico della mia amica e Reinette e Mirabelle sono fughe che si configurano come atti di resistenza alla massificazione del capitale), nella nostalgia di amori lontani ma impossibili da dimenticare (La mia notte con Maud, L’amore il pomeriggio).