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Jude Law e Paul Dano in Il mago del Cremlino
A un certo punto, Vladimir Putin scopre il programma della cerimonia d’apertura Giochi olimpici invernali del 2014, organizzati a Soči nonostante sia “una città subtropicale senza infrastrutture”. È una notazione che lo Zar pronuncia con un certo compiacimento, a sottolineare quanto riesca a imporsi a livello internazionale perfino con una scelta improbabile.
Quelle Olimpiadi, d’altronde, costituiscono l’occasione per una propaganda nazionalista di risonanza globale e, peraltro, garantiscono entrate finanziarie che fanno la gioia dei suoi uomini di fiducia. Che non sono quegli oligarchi che ne sostennero l’ascesa all’inizio del millennio: sono fedelissimi arricchiti e poco sofisticati, tutti appassionati all’idea di un passato da tutelare, celebrare, ricreare. E quale migliore circostanza di quella cerimonia per far vedere al mondo la storia, l’epica, la mitologia della grande Russia, che – lo dicono i sondaggi riportati nel film – snobbano Puskin e Tolstoj e considerano Stalin il vero eroe nazionale da rimpiangere per come reprimeva gli oppositori.
Tuttavia, leggendo la scaletta, Putin scopre che è prevista un’esibizione dei Daft Punk, il leggendario duo elettronico francese che il presidente ignora completamente. “Hanno appena vinto cinque Grammy, dobbiamo stare al passo” dice Vadim Baranov, il suo consigliere più brillante e ascoltato, a cui bastano pochi colpi dialettici per mettere in riga il collaboratore più tradizionalista, che in quella festa nostalgica preferirebbe il coro dell’Armata Rossa. Ma Baranov ha le idee chiare e nella sua visione tutto si tiene per un motivo limpidissimo: “È kitsch, e il kitsch è l’unico linguaggio che abbiamo”. Una spiegazione che suscita – ancora – il compiacimento del capo: “Sei il più artista tra i politici e il più politico degli artisti”, sentenzia con il sorriso beffardo di un Jude Law d’inquietante gigionismo.


Paul Dano Il mago del Cremlino
È uno dei pochi momenti “teorici” di Il mago del Cremlino (in originale Le mage du Kremlin, essendo la produzione francese; per il mondo, The Wizard of the Kremlin), in Concorso a Venezia 82, tratto dal best seller di Giuliano da Empoli, diretto da Olivier Assayas che l’ha pure scritto con Emmanuel Carrère. La cui grande icona letteraria, Ėduard Limonov, spunta in una scena che apre un altro varco metatestuale, in linea con l’impianto del libro di da Empoli: un romanzo scritto in forma di saggio con eventi reali ricostruiti con fedeltà ma servendosi anche di personaggi fittizi per comporre una riflessione storica sul potere.
La cornice è un po’ scolastica, con il giornalista Jeffrey Wright che, un po’ per caso e un po’ no, viene invitato nella isolata magione dove Baranov (Paul Dano, di finezza conclamata) si è ritirato a vita privata per raccoglierne segreti e confessioni. Il mago del Cremlino è letteralmente lui, un figlio della fine del regime sovietico che si ritrova prima nel vortice dell’avanguardia artistica, poi in televisione come produttore di reality che intercettano desideri e stereotipi della popolazione e infine spin doctor dell’uomo che gli oligarchi russi vogliono piazzare al posto dell’ormai malconcio Boris Eltsin, un glaciale e poco affabile ma molto informato e temibile ex agente del KGB.
Scandito da capitoli che definiscono la storia contemporanea russa, il film segue l’ascesa al potere di Putin attraverso il lavoro di Baranov, vero e proprio ideologo – anzi: autore, come se fosse una trasmissione televisiva da inventare seguendo sentimenti irrazionali e concetti forti – che plasma una nuova nazione su misura dei bisogni di un sistema: le misteriose bombe che destabilizzano gli ultimi mesi della presidenza Eltsin, la seconda guerra cecena, l’affondamento del sottomarino Kursk, la rivoluzione arancione in Ucraina. L’unica a diffidare è la donna della sua vita (Alicia Vikander), che attraversa i decenni nell’illusione di poter emanciparsi da un destino segnato.


Paul Dano il Il mago del Cremlino
(Carole Bethuel)Ascesa e caduta di un kingmaker, Il mago del Cremlino ha l’arguzia di non rappresentare un affresco completo dell’era putiniana, inquadrando i dissidenti o gente comune per intenderci, ma preferisce entrare nelle stanze del potere e nei retroscena della storia ufficiale per provare a comprendere l’inevitabilità di un percorso. Sarà pure vero che “il kitsch è l’unico linguaggio che abbiamo”, ma Assayas – autore di un cinema ossessionato dalle scissioni e dalle provvisorietà – sembra rifiutarlo con sdegno per rivendicare la differenza e, perché no, la statura morale, scegliendo un’asciuttezza quasi grigia da resoconto in bilico tra memorie e burocrazia.
Il fatto che sia tutto molto spiegato ne definisce la natura saggistica; il fatto che sia tutto un po’ asettico lo fa accostare più alla cronaca che al romanzo; il fatto che abbia un suo ritmo non lo rende esattamente incalzante; il fatto che sia, in fondo, la storia di un fantasma lo colloca giustamente nell’opera di Assayas. Che tutti i personaggi parlino la stessa lingua cioè l’inglese, dal giornalista americano al gretto Prigožin, invece, è una scelta che lascia perlomeno perplessi.