È Mulholland Drive di David Lynch il film più importante del XXI secolo secondo le firme della Rivista del Cinematografo e i direttori e programmatori dei principali festival italiani. Il nostro sondaggio – a cui hanno risposto oltre cinquanta tra critici, giornalisti, curatori e osservatori privilegiati – si è proposto come una riflessione collettiva sull'immaginario cinematografico degli ultimi venticinque anni. Una mappa ragionata, parziale ma significativa, che prende forma in vista del progetto 25 anni, 24 fotogrammi al secondo, il dossier in tre puntate che animerà i numeri di settembre, ottobre e novembre della rivista e un format nuovo, live, che stiamo preparando per la Mostra del Cinema di Venezia.

La coincidenza con l’uscita, solo poche settimane fa, della nuova classifica del New York Times dedicata ai 100 migliori film del nuovo millennio ci offre un’occasione preziosa di confronto. Nonostante le evidenti differenze nel campione (là registi, attori e accademici; qui critici e direttori di festival italiani), le due top ten rivelano una sorprendente convergenza. Sei titoli coincidono tra le due classifiche, e tre film – Mulholland Drive, Parasite, Il petroliere – occupano stabilmente le posizioni più alte. La conferma di uno zoccolo duro del canone contemporaneo, che non è né populista né elitario, ma frutto di un doppio sguardo: quello sul mondo e quello sul linguaggio.

Naomi Watts, Laura Harring in Mulholland Drive, @Webphoto
Naomi Watts, Laura Harring in Mulholland Drive, @Webphoto

Naomi Watts, Laura Harring in Mulholland Drive, @Webphoto

A dominare il vertice è, come detto, Mulholland Drive. Un film che ha saputo catalizzare come pochi lo spirito del tempo: un tempo frantumato, dominato dal sogno, dal trauma e dall’illusione. Lynch non racconta una storia, ma ci fa abitare il suo smarrimento. Non sorprende che la critica italiana lo abbia eletto come vetta del secolo: è l’opera che più di ogni altra incarna la dissoluzione dell’identità, la crisi del racconto e la malinconia di un’epoca in cui il reale ha perso coerenza e l'immagine è diventata riflesso deformato di desideri e paure.

Al secondo posto troviamo In the Mood for Love di Wong Kar-wai, che restituisce una nostalgia cristallizzata nel colore, nel movimento, nell’attesa. A seguire Parasite di Bong Joon-ho, parabola sociale potentissima sull’invisibilità e il rancore, ma anche sull’architettura della disuguaglianza come labirinto narrativo. Poco più sotto, Il petroliere di Paul Thomas Anderson, affresco viscerale sull’avidità come forza primordiale, incarnata nella figura archetipica e disturbante di Daniel Plainview. Sono film che raccontano in modo diverso la stessa vertigine: il mondo come teatro di lotta, di disgregazione e di reinvenzione.

Autori, geografie, genealogie

Ma a raccontarci qualcosa di ancor più profondo è forse il dato relativo agli autori. Il più citato, con ben otto titoli complessivi, è Christopher Nolan: unico cineasta capace di unire la dimensione del blockbuster a quella della ricerca linguistica. Nolan è l’autore-simbolo del millennio perché ha riportato il concetto stesso di “visione” – e di tempo – al centro del dibattito, e lo ha fatto da dentro l’industria, spingendone i limiti.

Cillian Murphy e Christopher Nolan sul set di Oppenheimer © Universal Pictures. All Rights Reserved.
Cillian Murphy e Christopher Nolan sul set di Oppenheimer © Universal Pictures. All Rights Reserved.
L to R: Cillian Murphy (as J. Robert Oppenheimer) and writer, director, and producer Christopher Nolan on the set of OPPENHEIMER. (Melinda Sue Gordon)

Subito dopo, un gruppo di registi con almeno quattro film votati ciascuno delinea un secondo canone, più sfaccettato e stratificato: Clint Eastwood, Lars von Trier, Matteo Garrone, Pablo Larraín, Paolo Sorrentino, Paul Thomas Anderson.

Più nutrita la compagine italiana rispetto a quella consegnataci dal NYT: Garrone e Sorrentino, ma anche Marco Bellocchio, Alice Rohrwacher e Paola Cortellesi. Una presenza significativa, che riflette non tanto un nazionalismo culturale, quanto la vitalità e la riconoscibilità di un certo sguardo autoriale italiano nel nuovo secolo.

Dal punto di vista geografico, è l’Europa il continente più rappresentato, con il 46,6% dei titoli; seguono le Americhe (39%), l’Asia (11,9%), mentre Africa e Oceania restano marginali. Una geografia che riflette la sensibilità dei votanti, certo, ma anche la distribuzione della visibilità internazionale. L’Italia, in questo contesto, emerge come un polo forte, presente con sette titoli e una pluralità di voci e generi, dal dramma storico (Il divo, La grande bellezza) alla commedia sociale (C’è ancora domani), fino alla favola morale (Gomorra).

Amaro, invece, il capitolo delle registe. Nella lista dei film con almeno due menzioni, solo il 8,3% è diretto da donne. Una percentuale che raddoppia tra i film con una sola menzione, ma resta comunque bassa. Non mancano nomi importanti – da Sofia Coppola a Kathryn Bigelow, da Julia Ducournau a Chantal Akerman – eppure l’impressione è che il consenso critico tenda ancora a consolidare un canone maschile. Il che non significa, evidentemente, che le registe abbiano prodotto opere meno rilevanti, ma che la loro ricezione fatica a tradursi in riconoscimento collettivo.

Emanuela Fanelli e Paola Cortellesi in C'è ancora domani (foto di Luisa Carcavale)
Emanuela Fanelli e Paola Cortellesi in C'è ancora domani (foto di Luisa Carcavale)

Emanuela Fanelli e Paola Cortellesi in C'è ancora domani (foto di Luisa Carcavale)

Cosa ci dicono i film che sono stati votati

La domanda decisiva resta allora: che cosa ci raccontano questi film del XXI secolo? Che tipo di immaginario stanno cucendo, quali ferite o desideri stanno tentando di rappresentare?

Emergono con forza alcuni temi trasversali. Il primo è quello della disuguaglianza, che diventa protagonista del cinema contemporaneo non solo nei film esplicitamente politici, ma anche nei dispositivi narrativi. Parasite è solo l’esempio più eclatante: l’architettura della casa diventa architettura della società. Ma anche La zona d’interesse, Gomorra, Joker e Il capitale umano parlano dello stesso strappo tra chi abita la superficie e chi vive nei sotterranei, tra chi guarda e chi è guardato.

Altro filo rosso è la crisi dell’identità. L’io contemporaneo è fluido, sfuggente, incapace di definirsi una volta per tutte. Mulholland Drive è il manifesto di questa dissoluzione, ma anche Se mi lasci ti cancello, Lei, La vita di Adele o In the Mood for Love partecipano dello stesso racconto interiore. Il soggetto non è più compatto: è attraversato da fantasmi, avatar, memorie manipolate, desideri irrealizzati.

(L to R) Marco Graf as Pepe, Daniela Demesa as Sofi, Yalitza Aparicio as Cleo, Marina De Tavira as Sofia, Diego Cortina Autrey as Toño, Carlos Peralta Jacobson as Paco in Roma, written and directed by Alfonso Cuarón. Photo by Carlos Somonte
(L to R) Marco Graf as Pepe, Daniela Demesa as Sofi, Yalitza Aparicio as Cleo, Marina De Tavira as Sofia, Diego Cortina Autrey as Toño, Carlos Peralta Jacobson as Paco in Roma, written and directed by Alfonso Cuarón. Photo by Carlos Somonte
(L to R) Marco Graf as Pepe, Daniela Demesa as Sofi, Yalitza Aparicio as Cleo, Marina De Tavira as Sofia, Diego Cortina Autrey as Toño, Carlos Peralta Jacobson as Paco in Roma, written and directed by Alfonso Cuarón. Photo by Carlos Somonte (Photo by Carlos Somonte)

Accanto a questi, troviamo il grande tema dell’apocalisse: ambientale, morale, nucleare. Dal collasso climatico di Mad Max: Fury Road al vuoto energetico de Il petroliere, fino alla responsabilità cosmica evocata da Oppenheimer. Non è un caso che uno dei protagonisti più ricorrenti sia l’uomo solo, in lotta con un destino più grande di lui, incapace di gestire la potenza che ha liberato.

Infine, molti dei film scelti riflettono sul cinema stesso: lo mettono in scena, lo interrogano, lo trasformano in racconto di sé. In ROMA di Cuarón come in C’era una volta a… Hollywood di Tarantino, ma anche in INLAND EMPIRE, il cinema si ripensa come memoria, come trauma, come atto perduto e da ritrovare.

Voci laterali, futuri possibili

Se allarghiamo lo sguardo ai film che hanno ricevuto una sola menzione – 151 titoli, spesso marginali o eccentrici – il quadro si arricchisce di ulteriori traiettorie. Emerge, ad esempio, un rinnovato interesse per il documentario d’autore, con opere come The Act of Killing, Sacro GRA, No Home Movie, che mescolano osservazione e reinvenzione.

Cresce anche la presenza del cinema queer e post-identitario, da I segreti di Brokeback Mountain a Estranei, da La vita di Adele a Emilia Perez, che ribadisce la centralità del corpo e del desiderio come luoghi politici e di rinegoziazione sociale. L’identità, in questi titoli, non è solo un tema: è una materia viva, in divenire, che si esprime attraverso gesti, sguardi, posture. Il cinema di inizio millennio, nelle sue declinazioni più laterali, mostra un forte desiderio di scardinare i binarismi di genere e di appartenenza, per dare voce a soggettività ibride, liminali, finalmente visibili.

Parallelamente, prende forma una nuova alleanza tra generi codificati e visione autoriale. È il caso di Get Out, di Barbie, di Anatomia di una caduta, dove il cinema pop si fa linguaggio politico, laboratorio di nuove mitologie. Il confine tra cineclub e mainstream, tra racconto di massa e gesto radicale, si fa sempre più sottile, a tratti indistinguibile. Il futuro del canone, sembra dirci questa coda lunga di film “minori”, sarà ibrido: attraversato da tonalità dissonanti, forme mescolate, autoriflessività pop e profondità emotiva.

Margot Robbie in Barbie © 2022 Warner Bros. Entertainment Inc.
Margot Robbie in Barbie © 2022 Warner Bros. Entertainment Inc.

Margot Robbie in Barbie © 2022 Warner Bros. Entertainment Inc.

Un’altra traiettoria importante è quella che potremmo definire "cinema del trauma globale": un cinema che si apre a geografie spesso escluse dal discorso dominante e che racconta, con mezzi scabri ma incisivi, conflitti dimenticati, ferite storiche irrisolte, transizioni brutali. Da 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni di Cristian Mungiu a Post mortem di Pablo Larraìn, da L’immagine mancante di Rithy Panh a Taxi Teheran di Jafar Panahi, questi film spostano il centro di gravità del racconto mondiale, restituendo voce e dignità a esperienze marginali o periferiche, in una prospettiva finalmente decentrata.

E infine, tra gli “outsider” colpisce il ritorno del corpo: non più solo messo in scena, ma esibito nella sua carne viva, nei suoi eccessi, nelle sue metamorfosi. Titoli come TomboyTitane, The Substance, American Honey mostrano una corporeità che resiste all’astrazione digitale, che diventa soggetto politico, estetico, esistenziale. È una risposta sensoriale all’immaterialità del presente, un gesto di insubordinazione visiva.

In definitiva, se i film più votati compongono il paesaggio condiviso della nostra memoria collettiva, quelli votati una sola volta ne costituiscono le vene nascoste, le contro-narrazioni, gli indizi del possibile. Più voci, meno consenso: ma anche più mondo, più differenze, più futuri.

Questo è solo l’inizio. Come detto, nei prossimi mesi la Rivista del Cinematografo dedicherà al progetto 25 anni, 24 fotogrammi al secondo tre numeri speciali – settembre, ottobre e novembre – per approfondire, espandere, articolare questo atlante critico del nostro tempo. E alla Mostra del Cinema di Venezia, un format video e live porterà questo dialogo nella dimensione pubblica, per fare del cinema non solo un oggetto da classificare, ma un linguaggio da interrogare. Perché, se è vero che l’immaginario ci racconta, allora vale la pena chiedersi: che film siamo diventati?