Sul finire dello scorso millennio, nel 1998, la fortuna non arrise a due titoli che poi, per motivi diversi (ma non troppo), nel corso del tempo sono diventati due cult, segnando in modo determinante (chissà quanto inconsapevolmente) le future traiettorie di un certo cinema “di periferia” capace di assorbirne, di volta in volta, le cifre atmosferiche e le derive di senso – un mix esplosivo tra noir, crime e grottesco – partorendo così un’interessante miriade di epigoni chiamati a rimanere sempre in bilico sul crinale dell’autorialità pop.

Entrambi ispirati a due testi preesistenti, L’odore della notte di Claudio Caligari (da Le notti di arancia meccanica di Dido Sacchettoni) e L’ultimo capodanno di Marco Risi (da L’ultimo capodanno dell’umanità di Niccolò Ammaniti) squarciarono la notte romana del cinemino borghese nostro, schiaffeggiandoci con metodi poco ortodossi, piegando il genere a nuove esigenze non solo narrative, ma concettuali.

In questo duplice scenario di mondo prossimo alla fine si muove così violentemente tanto la banda capeggiata dal poliziotto di giorno/malavitoso di notte Remo Guerra (Valerio Mastandrea), quanto la corale disfatta, allucinata e allucinante del film diretto da Risi (curiosità, anche produttore del film di Caligari...): le borgate e le zone popolari di Casilina e Centocelle di fine anni 70 inizio anni 80 si mescolano ai quartieri bene da depredare, mentre per il Capodanno si costruisce a Cinecittà un finto comprensorio “collocato” sulla Cassia, unità di luogo immaginaria in cui far deflagrare non solo i canonici botti di San Silvestro.

Con l’arrivo del nuovo secolo (e del nuovo millennio) alcuni esordi dietro la macchina da presa sembrano attingere da questi scenari (e personaggi) periferici.

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