Roma, Napoli, Puglia. Luoghi che negli ultimi decenni hanno alimentato l’immaginario di cinema e serialità, e non solo in quanto sfondi geografici. Ma se nella capitale e nella città partenopea registi e sceneggiatori si sono appropriati di palazzi e strade intrecciando fiction e cronaca giudiziaria, in Puglia, al contrario, hanno trasformato mare, trulli e masserie in scenari neutri, spazi riconoscibili e al tempo stesso adattabili alle più diverse narrazioni.

Prima di Gomorra di Garrone, il cinema napoletano appariva un arcipelago popolato di registi impegnati a raccontare la città nelle sfaccettature sociali, sentimentali e drammatiche attraverso un linguaggio più o meno classico. Dopo il film ispirato al romanzo di Saviano e la successiva serie, niente sarà più lo stesso. La sovrapposizione tra gli eventi camorristici reali, le vicende giudiziarie e il tessuto finzionale ridisegnano l’immagine di Napoli e con essa quello del cinema gangsteristico, fino a quel momento legato alla tradizione americana.

Gomorra è l’opera che taglia definitivamente i ponti con il neorealismo per ridefinire un nuovo immaginario della realtà napoletana, campana e, per la potenza dell’impatto, italiana. Garrone del resto squaderna una straordinaria capacità rievocativa i cui punti di forza, individuati perfettamente da Scorsese, sono: “l’estetica, il rigore, la struttura narrativa originalissima, la recitazione di tutti i personaggi, e la sua intensa e precisa visualizzazione, a volte da incubo”.

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