C’è ancora domani segna il debutto alla regia di Paola Cortellesi, anche interprete e co-sceneggiatrice. È un film, in bianco e nero, sull’autodeterminazione femminile, retrodatata nel secondo Dopoguerra con le ottiche, e qualche diottria, di oggi: diciamolo subito, è un film discreto, e anche qualcosa in più.

Cortellesi scrive con Furio Andreotti e Giulia Calenda, già sodali di sceneggiatura del suo compagno Riccardo Milani, e perfeziona una parabola, un manifesto (ehm, elettorale), quasi un apologo sull’essere donna ieri, ma anche oggi e domani.

Si ritaglia il ruolo di Delia, moglie di Ivano (Valerio Mastandrea) e madre di tre figli nella Roma in bilico tra la miseria bellica e la fresca liberazione: moglie e madre, e basta? La realtà suggerisce di sì: dal marito prende botte e disprezzo, dai due figli maschi nulla, dalla primogenita Marcella (Romana Maggiora Vergano) lo sprone a cambiare vita perché le sue colpe – ignavia, apatia, arrendevolezza, quel che vi pare – non ricadano sulla figlia stessa. Quale sarà la via d’uscita dal patriarcato, la fuga con il meccanico Nino (Vinicio Marchioni) o la misteriosa missiva ricevuta per posta?

A completare l’amica Marisa (Emanuela Fanelli), il suocero ex cravattaro allettato e dispotico Ottorino (Giorgio Colangeli) e il promesso sposo di Marcella Giulio (Francesco Centorame), il quadro è tecnicamente pregevole: la fotografia di Davide Leone, le musiche di Lele Marchitelli, le scenografie di Paola Comencini corroborano una fattura, che se non squisita è superiore alla media, invero bassa, del cinemino nostro.

Poi, ci sono le ambizioni artistiche e femministiche di Cortellesi, all’ombra del suffragio femminile (2 e 3 giugno 1946): C’è ancora domani le soddisfa? Più le seconde, diremmo.

Il film è solido, uniformemente ben interpretato, con nota di merito alla stessa Cortellesi e Mastandrea, e soprattutto sa destreggiarsi tra comico e tragico ed evocare senza troppi infingimenti il neorealismo rosa e quindi la commedia all’italiana nei caratteri umani, nel décor, nella temperie socioculturale. Traguardo sostanzioso, ancor più per un’esordiente dietro la macchina da presa, e la brava regista non si ferma qui: coreografa le botte di Ivano a Delia quale balletto sulle note di Nessuno, con i lividi che appaiono sulla pelle della donna e subito scompaiono, in quota trasfigurazione poetico-stilistica.

La sequenza funziona, ma per poco: nell’ovvia assimilazione tra il destino della donna nell’Italia anni Quaranta e dell’uomo afroamericano, ovvero afrodiscendente, negli Stati Uniti anni Quaranta, nel prosieguo i lividi vengono rilevati da un soldato di colore della polizia militare stelle & strisce, sicché la trasfigurazione ballerina con le ecchimosi a scomparsa va a farsi benedire – a rincarare la irresolutezza, il labbro spaccato di Delia verrà ravvisato solo da Marisa e le donne, in quota solidarietà di genere. Insomma, un po’ di irresolutezza, ehm, epidermica.

Ma c’è un altro problema nello script, che attenta alla tenuta di una storia altrimenti ben congegnata. Ha a che fare con la natura della missiva, ovvero del latore: chi è l’inteso spasimante, può esserlo l’umile meccanico Nino, che peraltro vive a due passi e non pare avvezzo alla scrittura, e se non lui chi altri?

Non sarebbe stato meglio, al fine di sospendere l’incredulità e non inficiare il colpo di scena finale, cassare Nino e prospettare un amico d’infanzia che ha fatto fortuna, almeno intellettuale, altrove e di ritorno a Roma si preannunci a Delia con una lettera? Credetemi, non son farneticazioni, e nemmeno quisquilie.

A Paola Cortellesi non difetta il talento né appunto l’ambizione, ma serve più attenzione in scrittura e più radicalità espressiva. Altrimenti si balla per una sola stagione, pardon, sequenza, e sarebbe un peccato.