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Laura Harring in Mulholland Drive, @Webphoto
C’è una curva sulle colline di Los Angeles, una striscia d’asfalto che taglia l’immaginario americano come un bisturi silenzioso. Da lì si scende nel cuore cavo di Hollywood, ma anche in quello più nero della coscienza. Lì comincia – o finisce – Mulholland Drive, il film più significativo del XXI secolo secondo buona parte della critica italiana, e non solo. L’ha ribadito Cinematografo, dopo che New York Times gli aveva preferito Parasite. Ma non è questione di classifiche. È questione di ferite.
David Lynch non gira film. Costruisce apparizioni. Apparizioni che a volte si chiamano Betty, altre Diane. Apparizioni che parlano con la voce dolce delle attrici ingenue anni ’50 e piangono con gli occhi vuoti delle dive dimenticate. Apparizioni che si accendono sotto le luci dell’industria dei sogni e si spengono in un letto disfatto, in un motel che sa di rancore e di seconda occasione fallita.


Mulholland Drive, @Webphoto
Nato per non esistere – pilot televisivo abortito, rigettato dalla ABC perché “troppo oscuro” – Mulholland Drive rinasce come mostro meraviglioso nel 2001. Il corpo è quello di un noir che ha letto Lacan, la pelle è levigata come quella di Naomi Watts, ancora sconosciuta, convocata da Lynch per ispirazione istantanea. “Sapevo che era lei”, avrebbe detto più tardi, “senza sapere perché”. Non servono spiegazioni, mai, per Lynch.
E così, quel che doveva essere una serie tv diventa cinema. Cinema nella forma più pura e ingannevole. Cinema come atto magico e crudele, come illusione venduta con sorriso candido e denti stretti. La scatola blu si apre, e tutto si ribalta. Il sogno diventa incubo, l’eroina si sdoppia, l’identità si frantuma. Un film che è anche un’overdose percettiva: chi guarda si perde, e nel perdersi si ritrova – o almeno impara a convivere con la vertigine.


Naomi Watts, Laura Harring in Mulholland Drive, @Webphoto
Lì dove Inception disegnerà sogni a livelli, Mulholland Drive li lascia scorrere come benzina su una superficie infiammabile. Il montaggio è un nastro inceppato, la narrazione un canto di sirena: ci entri che sei spettatore, ne esci che sei complice. Le leggi del tempo saltano, la coerenza si liquefa. Non ci sono “colpi di scena”, solo strappi. Strappi nella logica, nello spazio, nella faccia stessa del desiderio. Come se Lynch avesse deciso di prendere tutti i codici del cinema classico – la storia d’amore, il mistero, l’ambizione, il successo – e annegarli nel Club Silencio, sotto una voce che ti dice “no hay banda” mentre senti la musica. Una verità più vera della verità stessa.
Che poi è il segreto del film: non racconta una storia, racconta un’illusione. E poi la sua fine. La bolla, il collasso, il rimpianto. Come Hollywood. Come la vita.
Vent’anni dopo, siamo ancora lì, a interrogarci su quella chiave blu, su quel cowboy nel buio, su quel volto devastato dietro il diner. Perché? Perché Mulholland Drive ci guarda da dentro. Parla all’epoca delle identità multiple, della performance continua, della memoria che si riscrive in tempo reale. Anticipa i deepfake, i social, i sogni algoritmici. È cinema del futuro nel senso più crudele: non immagina, prevede.


Mulholland Drive, @Webphoto
È anche per questo che non smette di tornare in cima alle classifiche. Perché non invecchia. Perché è nato già oltre, come una reliquia venuta da un tempo che non esiste ancora. E perché ogni visione non è una replica, ma una reincarnazione.
Chi sono Betty e Diane? Siamo noi, ogni volta che proviamo a scrivere la nostra storia e ci accorgiamo che qualcun altro l’ha già girata, male, con un finale sbagliato. Ogni volta che sogniamo di essere amati, ma finiamo a fissare un telefono che non squilla. Ogni volta che ci raccontiamo la versione più accettabile di noi stessi, e la chiamiamo “vita”.


Mulholland Drive, @Webphoto
Guardare Mulholland Drive oggi è guardarsi vivere. E forse morire un po’. Ma farlo con eleganza, con lentezza, con stile. È ancora il film del secolo perché il secolo non ha ancora smesso di essere quel sogno triste iniziato nel 2001, proprio quando uscì. L’anno di un altro trauma globale, il vero risveglio dell’Occidente nel nuovo millennio.
Lynch, da profeta silenzioso, l’aveva capito. L’aveva mostrato. E noi siamo ancora lì, sulla collina, a cercare una spiegazione che non arriverà. Solo immagini, suoni, sussurri.
Silencio.