Che cosa riflette oggi lo specchio del nostro cinema? Un volto integro o un’immagine incrinata, fatta di frammenti che non combaciano più?

L’ultima edizione del Premio Solinas ha scelto un titolo tanto evocativo quanto calzante: Scrivere nella bufera. E davvero, mai come oggi, scrivere per il cinema italiano sembra un atto esposto a raffiche contrarie, instabilità strutturali. Ma qual è, esattamente, la natura di questa bufera? È solo congiunturale, fatta di decreti, riforme, finanziamenti da rincorrere? È industriale, modellata da piattaforme che impongono nuove logiche di racconto? O è più profondamente culturale, legata a un progressivo svuotamento dell’immaginario?

Il rischio è che a furia di inseguire “temi”, bandi e format, si perda l’ossigeno che tiene vivo ogni narrazione: la capacità di creare mondi. Senza immaginario, che linguaggio condiviso può sopravvivere? Come si parla a un pubblico - frammentato ma esigente - se non si riesce più a costruire miti, archetipi, figure che durino nel tempo?

La terza e ultima parte di 25 anni, 24 fotogrammi al secondo è dedicata al cinema italiano come specchio. Perché uno specchio non mente, ma può infrangersi. La sfida, allora, è riconoscerne i frammenti più vitali e provare a ricomporli in una mappa del possibile.

Dogman
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C’è un’Italia che riemerge dai campi, dalle cave, dalle viscere: una catabasi poetica che ha trasformato il “reale” in mito e il mito in nuovo realismo, chiamandoci a scendere sottoterra per ritrovare ciò che in superficie non vediamo più. Non è forse questo il gesto segreto di Rohrwacher, Frammartino, Carpignano, aprire varchi, scoperchiare tombe, attraversare “buchi” per mettere in contatto un Paese smemorato con le sue radici?

C’è poi l’Italia delle città che riscrive i propri generi. Napoli, dopo Gomorra, non è più soltanto fondale: è un dispositivo narrativo che contamina crime, mélo, memoria; Roma, da Suburra ad Adagio, si offre come noir di potere (salotti, cupole, litorali); la Puglia, set diffuso, è una cornucopia ora barocca, ora fiabesca, ora cupa. Territori che si ridisegnano estetiche e alfabeti.

E la serialità? Lungi dall’essere una parentesi industriale è diventata laboratorio di forme e storie: ha allungato il respiro, ha costretto i racconti a misurarsi con traumi rimossi e cronache incandescenti, da Moro a Saviano, da laici papati immaginari a demoni realissimi. Intanto un altro asse si sposta: la presa di parola femminile. Non è forse vero che, dagli ultimi anni, il corpo in scena non è più oggetto ma soggetto, che commedia, favola e documento si ibridano per risignificare maternità, desiderio, violenza, potere? Dall’era Berlusconi al post-pandemia, la domanda resta: come si fa a tornare all’altezza del nostro pubblico? Con quali storie, quali simboli, quali standard professionali?

Forse la chiave è nel rimettere insieme i cocci senza fingere che lo specchio non si sia rotto. Accettare la frattura, farne stile, metodo: rammendare con i generi, con le botteghe, pretendere sceneggiature che respirino, restituire al visivo la sua carica simbolica. Rimetterci di fronte allo specchio e chiederci: che Paese vogliamo vedere? Un riflesso liscio o un’immagine viva, attraversata da segni, conflitti, desideri? Questo numero e il prossimo offrono una mappa per orientarci dentro la bufera. La schiarita non è promessa; è un lavoro. E comincia qui.