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JEREMY RENNER stars in THE HURT LOCKER.
Dalla strada alla stanza, dalla stanza alla strada, dalla strada di nuovo alla stanza. Timer, checklist, interfacce, sale operative, corridoi, ancora stanze. Con i suoi ultimi quattro film - The Hurt Locker (2008), Zero Dark Thirty (2012), Detroit (2017) e A House of Dynamite (2025) - Kathryn Bigelow ha raccontato l’America del XXI secolo come nessun altro. Guerra asimmetrica, guerra segreta, guerra civile a bassa intensità, deterrenza nucleare: quattro “stanze” dell’immaginario stelle e strisce viste dall’interno dei loro dispositivi. Un’America che appare onnipotente a distanza (droni, robot) e vulnerabile da vicino.


Se li guardiamo come un unico racconto, questi film ci dicono della geopolitica contemporanea più di molti think thank, tribune televisive, saggi specialistici, editoriali dei grandi giornali. L’America è un corpo che lavora: smonta bombe, monta dossier, sfonda porte, calcola traiettorie. Ognuno di questi film è un atto politico che riconsidera la questione della responsabilità nella dialettica tra singolo e apparato. O se vogliamo tra vicino e lontano. Tra la stanza e il mondo. Bigelow non santifica né demonizza l’istituzione: la espone alla prova dello sguardo. Il suo cinema, lungi dall’essere una presa diretta del fattuale, ci addestra a tollerare la complessità senza cadere nell’indifferenza. Ci ricorda che la superpotenza non è un blocco marmoreo ma un organismo che respira, sbaglia, corregge, delega, decide. E che il cittadino-spettatore - il nostro posto? - non è fuori campo ma a bordo. In un’epoca che alterna l’isteria della performance alla paralisi del cinismo, quei quattro film rimettono il rischio al centro senza trasformarlo in spettacolo.


The Hurt Locker
(Webphoto)Da The Hurt Locker in poi, Bigelow ha fatto della vulnerabilità la condizione naturale dell'impero. Nel soldato James, tecnico del disinnesco in Iraq, non c'è traccia dell'eroe classico. C'è una figura che non cerca la vittoria, ma l'accesso alla propria dipendenza. L'immagine cardine è quella del corpo chiuso nella tuta antiesplosione, goffo e potente insieme, in marcia verso un ordigno come verso una necessità oscura. La guerra non è più un fatto collettivo, è compulsione individuale. E al ritorno, il protagonista non trova più un mondo abitabile: solo il silenzio geometrico di un supermercato, il vuoto dei prodotti in fila. Come se la guerra, una volta respirata, rendesse l'America stessa un luogo troppo rarefatto per vivere.


Poi, con Zero Dark Thirty, la guerra si sposta nell’ombra. La macchina del potere si contrae in una serie di stanze dove il tempo è scandito da interrogatori, email, consensi negati. L'operazione per uccidere Bin Laden non è un colpo di scena, è un processo. L'ossessione di Maya, l'agente che guida la caccia, è senza tregua, senza premura, senza consolazione. Anche la vittoria, quando arriva, è un esito opaco. I volti attraverso i visori notturni, la luce virata in verde, il sapere che si mescola al sospetto: tutto è nebbia. Il potere, per funzionare, deve imparare a convivere con la propria cecità.


Con Detroit, l'America scopre che la guerra è interna, intestina. La lunga notte dell'Algiers Motel, con i suoi rituali di sopruso, è girata come se non ci fosse mai un fuori: solo muri, urla, respiri trattenuti. La macchina da presa non è testimone, è complice involontaria. L'orrore non è un caso isolato, ma il sistema stesso: produce impunità, organizza la paura come strumento di controllo. Quando il giorno arriva, è già tardi. Il processo non rende giustizia. Il dolore resta lì, nelle stanze, come un odore che non si riesce a lavare via.


Infine, con A House of Dynamite, l'incubo ritorna in forma atomica. Una minaccia non rivendicata, in volo verso Chicago. Diciotto minuti. Il tempo una trappola. I centri decisionali, le basi militari, la Situation Room: tutto filmato ad altissimo voltaggio, implacabile metronomo dentro una paralisi disperata, elettrica. Non c'è più spazio per la retorica, solo gestione dell'incertezza. Bigelow costruisce un film che non racconta l'apocalisse, la misura. In quel tempo compresso, che si ripete e si frammenta, c'è tutta la nostra contemporaneità: il sospetto come condizione permanente, la decisione come opzione tra due mali, la paura come sistema nervoso dell’Occidente.


Questi quattro film non si limitano a raccontare la Storia, la lavorano fino a renderla di nuovo materia visibile, esperienza tattile. L'immaginario americano viene smontato pezzo a pezzo: l'eroe, l'esercito, la legge, la Casa Bianca. Ogni tassello posto sotto pressione, testato come in un crash test etico, emotivo, percettivo. E nel farlo, Bigelow ha inventato un'estetica, un realismo delle interfacce. Il suo cinema è fatto di schermi, visori, tute, carte, cruscotti. Il nemico non è mai del tutto visibile, la minaccia è sempre fuori fuoco. Ma ciò che importa è il modo in cui gli individui, incastrati in quei dispositivi, resistono o cedono, scelgono o si arrendono. Il montaggio come stress test e l’utilizzo della camera a mano e della focale corta, non le servono ad agitare la scena, ma ad isolare funzioni (mani che tagliano fili, volti in ascolto, oculari che restringono il mondo).


Con A House of Dynamite le stanze e le funzioni si moltiplicano (base radar, comando strategico, Situation Room), ma la trama profonda è unica: lo Stato, massimamente capace, è esposto all’incertezza di base, mentre i dati restano sporchi, ambigui e le catene decisionali si rimpallano.
Ne esce una forma procedurale che non neutralizza il problema etico ma lo sposta nel “come”. In Bigelow la questione morale è la frizione tra ciò che si deve e ciò che si può fare (e sopportare).
Nella sua filmografia non c’è il trionfo muscolare della nazione, né l’edonismo del cataclisma come spettacolo autosufficiente: c’è la frizione tra potere e procedura, tra ciò che lo Stato sa di sé e ciò che il reale, ostinatamente, gli nasconde. L’eroismo è l’aderenza esasperata a un protocollo che può fallire da un momento all’altro. Laddove il blockbuster catastrofico “alla Emmerich” organizza l’apoteosi dell’evento — la città sbriciolata, il monumento abbattuto, il montaggio come fanfara — Bigelow sposta l’attenzione sull’anticamera dell’evento: i corridoi, le sale operative, l’occhio che fatica a distinguere, l’ordine che vacilla. E se il primo ci invita a guardare come finisce il mondo. La seconda ci domanda: che cosa vuol dire decidere quando il mondo potrebbe finire?


Se Michael Bay mette in scena l’iperbole - macchina da presa vorticosa, montaggio ipercinetico, fetish per elicotteri, supercar, tramonti arancioni, e soprattutto la “Bayhem”, cioè la coreografia dell’esplosione - la Bigelow, per contro, usa gli stessi materiali per svitare il tappo del potere e farci sentire la pressione che c’è sotto.
Questa differenza di sguardo nasce anche da una biografia artistica anomala nel paesaggio hollywoodiano. Bigelow non arriva al set dal mito del cinema d’azione, ma dalla formazione concettuale: pittura al San Francisco Art Institute, il Whitney Museum’s Independent Study Program a New York, quindi Columbia, dove studia teoria e critica con maestri che le inculcano una domanda di metodo: che cosa fa un’immagine quando pretende di “spiegare” la realtà? Prima ancora dei lungometraggi, c’è The Set-Up (1978), un corto in cui la violenza viene mostrata mentre due teorici la decostruiscono in voce off: non un’estetica del colpo, ma un’analisi del colpo. È qui che si radica quella tensione “adrenalinica” che qualcuno chiama frettolosamente “maschile”: non un culto del testosterone, bensì l’interesse analitico per il momento in cui il corpo entra in crisi con il dispositivo che lo contiene.


Il punto teorico, a ben vedere, è il paradosso vulnerabilità/potere. Più uno Stato amplia la propria capacità d’intervento, più espone i suoi nervi scoperti: si moltiplicano interfacce, sensori, catene di responsabilità, nodi di attribuzione. Ogni incremento di potere aggiunge un punto di rottura. È la democrazia americana degli ultimi venticinque anni letta dal lato B della sua retorica: ipercompetente e stanca, velocissima e dubbiosa, blindata e permeabile, dominatrice e assediata.


Il suo rapporto con l'industria è stato a sua volta una prova di originalità. Ha vinto un Oscar con un film indipendente, ha messo in difficoltà la distribuzione con Detroit, ha scelto Netflix per portare il suo thriller geopolitico al pubblico globale.
Kathryn Bigelow per questo non è una regista militante, ma una regista di frontiera. Tra ciò che sappiamo e ciò che ci minaccia, tra il protocollo e il precipizio. Il suo cinema è come una carica elettrica sotto la pelle della storia. Non rassicura, non ci consola. Ma ci costringe, magnificamente, a restare svegli.