Le condizioni che hanno determinato i tumulti del 1967 a Detroit sono sempre là. Lo dice il film omonimo di Kathryn Bigelow - presentato al RomaFF 12 - lo ribadisce la tragedia di Charlottesville.

L’America affonda attorno alla statua del vecchio soldato confederato. Che importa a che tempo si coniugano le domande e le risposte, quello che accade a Detroit prescinde dal tempo. Detroit era il passato. Detroit è diventato il presente. Sulla Motor City e le sue rovine fotogeniche, il mondo occidentale ha sempre proiettato i suoi incubi e le sue utopie, raccontando oggi il suo ritrovato stato di grazia. Ma sono i bianchi a progettare il suo rinascimento.

Dove sono i neri? Dov’è la schiacciante maggioranza della popolazione (83%)? La città che decolla è una città bianca con linee di tramway che aggirano i quartieri della desolazione dove esplodono (ancora) le proteste. Ossessionata dalla complessità del passato americano e dai ‘territori’ agitati dai conflitti, Kathryn Bigelow punta lo sguardo sulla Detroit del 1967 confermando un cinema edificato su una forte struttura polemica, attiva a livello di contenuto quanto di espressione. Ancora prima di uscire sugli schermi americani il 4 agosto, Detroit è stato oggetto di un processo di legittimità istruito da una parte della critica americana che accusa l’autrice di appropriazione culturale, di aver sfruttato un dramma, quello della brutalità dei poliziotti contro gli afroamericani, che è esclusiva competenza degli oppressi. A chi appartiene il ‘dolore nero’? Con buona pace dei critici a sinistra e di Spike Lee, alcune delle migliori opere recenti sulla condizione dei neri sono realizzate da bianchi (The Wire o Treme), la furia delle accuse non offusca l’evidenza.

Detroit è un film importante per quello che dice e per come lo dice. Eludendo la compiacenza supposta per una violenza oltraggiosa, il film non esibisce giudizi ma un’insolubile problematicità. Avviato in un contesto di resistenza e ribellione nera, Detroit si rovescia in un racconto di impotenza e passività nera. Gli uomini bianchi hanno il potere, i mezzi, i tribunali, le risposte, le assoluzioni. Detroit dimostra l’impotenza del cinema in faccia all’incubo di non sapere e non volere risolvere la questione razziale.

Detroit riconosce questa difficoltà e diventa prova tangibile dell’impossibilità di offrire una visione per la sua soluzione. Il film apre su immagini crude animate che ripercorrono la storia della comunità afroamericana, dalle deportazioni all’abolizione della schiavitù, dal massiccio esodo rurale verso i ghetti del Nord al poderoso e sfaccettato movimento politico guidato da Martin Luther King. L’affermazione di partenza è che a Detroit, come altrove a metà degli anni Sessanta, i tempi fossero maturi per il cambiamento.

Quando e dove sono le domande poste ma disattese dalla Bigelow che si muove su due immaginari concorrenti nel disputarsi l’attenzione dello spettatore: quello di guerra divorato da quello dell’orrore. Sono i generi, anzi i più istituzionali male-dominate genres, i luoghi in cui agiscono da sempre gli oggetti del cinema della Bigelow. L’autrice apparecchia un sex motel che soddisfa la sua ambizione plastica e in cui insinua un manipolo di poliziotti razzisti alla ricerca dell’arma che un misterioso sniper ha ‘scaricato’ contro di loro. Un’arma giocattolo che spara il colpo che segna l’avvio di quello che l’autrice sa fare meglio: esacerbare la rivalità maschile fino a riassorbirla in una deflagrazione di azione pura. Dall’oscurità emerge un teatro della crudeltà che inverte il rapporto di forza di The Hateful Eight, dove un ufficiale nero costringeva allineati contro il muro dei sospetti sottomettendoli a un’estenuante prova della verità.

Qui il maestro di cerimonia è un bully wasp fluttuante dentro un uniforme troppo larga per lui. Interpreti di figure di autorità antitetiche, condividono una medesima logica sacrificale in virtù della quale la giustizia si rimette in un bagno di sangue. Ma laddove l’oltranza tarantiniana derealizzava la violenza, la Bigelow fa sperimentare allo spettatore il terrore appoggiandosi a un verismo scrupoloso che vuole tracciare un edificante parallelo con l’attualità, marcata da un accresciuto numero di afroamericani abbattuti dalla polizia. Il prezzo (calcolato) è un didascalismo che sacrifica i personaggi sull’altare della presa di coscienza, riconoscendogli nient’altro statuto che quello di martiri o testimoni impotenti, riconfermando una nazione che si muove in direzione di due società, una bianca e una nera, separate e mai uguali tra loro. Again.