Chi era la Duse? “Difficile dirlo, perché nessuno di noi l'ha conosciuta e il cinema è sempre una trasposizione della realtà”.

Dopo Martin Eden (2019), Pietro Marcello torna in concorso alla Mostra di Venezia con Duse, film che come da titolo si concentra sulla grande attrice teatrale, qui interpretata da Valeria Bruni Tedeschi. Non un biopic tradizionale, “è stata una reinvenzione, poggiata però su basi solide, soprattutto grazie al lavoro dei miei sceneggiatori (Letizia Russo, Guido Sidei, ndr)”, spiega il regista, che nel film racconta l’ultimo periodo della vita della Divina.

Eleonora Duse ha una leggendaria carriera alle spalle che sembra ormai conclusa, ma nei tempi feroci tra la Grande Guerra e l’ascesa del fascismo, sente un richiamo più forte di ogni rassegnazione e torna lì dove la sua vita è iniziata: sul palcoscenico.

Prodotto da Palomar, Avventurosa con Rai Cinema e con Piper Film, in co-produzione con Ad Vitam Production, Duse – nel cast anche Fanni Wrochna, Noémie Merlant, Vincenzo Nemolato, Edoardo Sorgente, Gaja Masciale, Vincenza Modica, Mimmo Borrelli, Savino Paparella e con la partecipazione di Noémie Lvovsky, arriverà nelle sale il 18 settembre distribuito da Piper Film.

Valeria Bruni Tedeschi e Fanni Wrochna in Duse © Erika Kuenka
Valeria Bruni Tedeschi e Fanni Wrochna in Duse © Erika Kuenka

Valeria Bruni Tedeschi e Fanni Wrochna in Duse © Erika Kuenka

Perché Eleonora Duse? E perché Valeria Bruni Tedeschi per interpretarla?
La Duse in primo luogo perché bisogna cercarla, vista la totale assenza di registrazioni audio o video, eccezion fatta per la sua unica partecipazione cinematografica in Cenere, nel 1916. È un personaggio quasi ottocentesco, capace di muoversi in modo dinamico nella storia. In un certo senso i suoi ultimi giorni hanno anche segnato la fine di un’epoca, mi interessava molto anche l’aspetto della relazione tra arte e potere. La scelta di Valeria è stata naturale, pensavo a lei già in fase di scrittura: abbiamo lavorato in stato di grazia, è stata un’esperienza straordinaria, non mi sono posto la questione se fosse bionda o mora, cercavo un fuoco e ho pensato a lei, che oltre ad essere una fanatica della Duse e un’attrice straordinaria è anche una grande regista, aspetto questo che è stato d’aiuto intanto per reinventare continuamente il film e poi per l’aspetto anche corale del racconto, oltre al voler far dialogare continuamente il teatro con il cinema, cosa non sempre semplicissima.

Soffermiamoci un momento sulla questione del rapporto tra arte e potere: Eleonora Duse muore nel 1924, solamente qualche mese prima la presa del Parlamento di Mussolini.
Nel film questo aspetto cerchiamo di farlo emergere in vari modi. Da una parte attraverso l’utilizzo dell’archivio, con i funerali del Milite Ignoto, simbolo nazionale che nasce come sentimento contro tutte le guerre e che invece il fascismo fece proprio, quasi a legittimare il proprio potere. Poi nel rapporto tra la Duse e D’Annunzio (lo interpreta Fausto Russo Alesi, ndr), che in una certa maniera rielaboriamo anche grazie all’epistolario intercorso tra i due, culminante in quella scena al Vittoriale, nel 1922, all’indomani dell’incontro tra lei e Mussolini (Vincenzo Pirrotta, ndr). In un certo senso è come se entrambi finiscano nel retino delle farfalle, con il rischio di essere impagliati. Mi piaceva molto l’idea di far viaggiare in parallelo il treno onorario del Milite Ignoto alla vicenda della Duse.

Pietro Marcello © Erika Kuenka
Pietro Marcello © Erika Kuenka

Pietro Marcello © Erika Kuenka

Il potere che tenta di appropriarsi dei simboli: accade ancora oggi secondo te?
Beh, oggi accade con l’economia, lo fanno i media attraverso l’economia diciamo. C’è sempre il corso e il ricorso della storia, ma ci sono anche i cambiamenti.

È curioso che solamente un anno fa alla Mostra ci fosse un film, Maria di Pablo Larraín, che raccontava gli ultimi giorni di un’altra Divina, la Callas. Credi che il recupero di queste figure così significative del secolo scorso dipenda dal fatto che è impossibile trovare degli epigoni nei giorni nostri?
In parte sì, poi sono convinto che sia fondamentale imparare l’arte per tradirla, per conoscerla. Nel nostro caso è stato come lavorare su un romanzo, su un racconto, è stato come reinventare. Si parla della famosa registrazione della voce di Edison fatta in America ma in fondo questa voce non si è mai più trovata.

Processo, questo della reinvenzione, della trasfigurazione del reale, che caratterizza da sempre il tuo cinema.
Anche stavolta il modo di lavorare è stato lo stesso: il mio modo di fare cinema è quello di mettere insieme delle squadre, dalla fotografia alla ricostruzione degli ambienti, credo che quello che dobbiamo saper fare più di ogni altra cosa è il mettere insieme. Sono molto contento di aver potuto lavorare con Valeria e con tutti gli altri attori, c’è talmente tanta roba in questo film che in qualche modo ho ancora bisogno di capirlo anche io.

Valeria Bruni Tedeschi e Noémie Merlant in Duse © Erika Kuenka
Valeria Bruni Tedeschi e Noémie Merlant in Duse © Erika Kuenka

Valeria Bruni Tedeschi e Noémie Merlant in Duse © Erika Kuenka

Tornando al fuoco di cui parlavi prima, a proposito della Duse. In un certo modo è lo stesso che continua ad animare cineasti come te, come Alice Rohrwacher, portatori di uno sguardo che si discosta dalle logiche convenzionali e dagli stereotipi della cosiddetta industria culturale. Quanto è faticoso tenere viva questa fiamma?
Non credo che sia una fatica, ma un privilegio. È un privilegio poter fare film. È ridicolo dire che è una fatica, la fatica è quella che abbiamo imparato da ragazzi, il dover andare in ginocchio strisciando per fare esperienza. Dovremmo preoccuparci piuttosto di creare scuole, dedicarci agli altri, in fondo. Dobbiamo immaginare un mondo migliore, e questo va fatto con i giovani, con lo spirito di continuare a fare inchiesta. E pensare che quelli che restano sono i bei film. Perché un film lo puoi pompare quanto vuoi, dal punto di vista distributivo, metterci tutti i soldi che vuoi. Poi i conti li farà con il tempo: conta quello che resta. E lo dico in primo luogo da archivista, in secondo luogo con la convinzione che il cinema debba essere diffusione: tutto quello che realizziamo diventerà archivio, e dobbiamo imparare a conservare, continuare a fare quello che abbiamo sempre fatto. Per questo vanno create scuole, affinché i giovani possano imparare. Anche ad educare l’intelligenza artificiale, ad esempio, che non puoi fermare. Sono molto attento al futuro, alle novità, perché ho sempre imparato a lavorare con le macchine, a girare, montare, produrre. Bisogna aggiornarsi continuamente però, per capire dove andare.