Un uomo dall’aria trascurata che vive da solo nelle stalle ristrutturate di una decadente villa toscana e si lascia macerare dal ricordo e dalle conseguenze di un dramma indicibile. Una contessina che, insieme ad alcuni amici un po’ idealisti e un po’ fricchettoni, ha occupato quella campagna che un tempo apparteneva alla sua famiglia per lavorare la terra e godere dei suoi frutti. Un incontro che cambierà le loro vite, mentre il rigido inverno - che non è solo una stagione ma uno stato d’animo - si scioglie in una calda primavera. Queste le coordinate per orientarsi nel mondo di Cinque secondi, il diciassettesimo lungometraggio di finzione di Paolo Virzì, presentato in anteprima assoluta alla XX Festa del Cinema di Roma e nelle sale italiane dal 30 ottobre con Vision Distribution. Abbiamo incontrato il regista.

Dopo tre corali che affrontavano la fine di qualcosa (Notti magiche, Siccità, Un altro Ferragosto), Cinque secondi sembra più compatto e asciutto.
È un film che muove i suoi primi passi in modo misterioso. C’è qualcosa di plumbeo. Abbiamo poche informazioni. C’è una Toscana invernale, selvatica, poco invitante, un postaccio non da cartolina. E, in una casupola, la stalla di una dimora disabitata, c’è Adriano Sereni, un misantropo che passa le sue giornate sempre uguali: non sa fare niente, non sa curare l’orto, si trascura, mangia solo cibo nelle scatolette, non vuole avere contatti con nessuno. E poi succede qualcosa.

Cosa?
Si imbatte in una comunità insediatasi vicino alla dimora. Tra le ragazze e i ragazzi che curano la campagna e i vigneti abbandonati c’è anche la contessina Matilde, che in quella villa ci è cresciuta, incinta. Adriano vorrebbe cacciarli ma, a poco a poco, comincia a rivelare la sua trama dolorosa, per poi accendersi in un conflitto vivace e buffo ed aprirsi a spiragli di dolcezza e a un sentimento di fiducia.

Quello della paternità è un tema sempre più presente nel tuo cinema.
Spesso ho descritto padri imbarazzanti e fastidiosi. Adriano è un borghese di Roma nord, si confronta con un gruppo di elfi dei boschi che mettono in discussione alcune certezze, compresa l’ossessione arcaica per il padre biologico. “Un padre non serve”, dice la contessina. E questo incontro con un mondo nuovo ci fa capire quanto sia tormentato da un segreto doloroso che non rivela a nessuno. E che, senza anticipare nulla, è la spiegazione del titolo.

Antonello&Montesi
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Più dello scontro generazionale, mi sembra ci sia il desiderio di un dialogo.
Non credo che sia giusto descrivere i più giovani solo come quelli che si chiudono con TikTok. Scendono in piazza per protestare, si appassionano alle grandi questioni del nostro tempo, percepiscono il dolore del mondo come proprio. Poi è chiaro che le loro risposte possono essere ingenue, che sia l’abolizione della guerra o il blocco del traffico. Ma vanno ascoltati, c’è bisogno anche del loro incosciente velleitarismo. Gli adulti hanno un atteggiamento più realista e ansiogeno, sono consapevoli delle cose complicate della vita. Solo l’alleanza tra questi due sguardi può dare risposte efficaci.

È la tua prima volta in un tribunale, che insieme alla campagna è lo spazio che vediamo più spesso nel film.
Amo i legal drama e mi ha rassicurato avere Giancarlo De Cataldo (ex magistrato, scrittore, sceneggiatore, ndr) nel ruolo del giudice. Ci ha fatto anche da supervisore, è stato perfetto e credibile. Posso dire di aver pensato ad Anatomia di una caduta. E mi piace citare anche un’altra ispirazione.

Quale?
Paris, Texas. La storia ha dei punti di contatto: un uomo che vaga nel deserto, una tragedia interiore che capiamo a poco a poco, la consapevolezza dell’amore che c’è stato e che porta il protagonista a far riavvicinare il figlio alla mamma. Ammetto di aver tenuto a mente quel finale per Cinque secondi.

antonello&montesi
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Adriano Sereni è Valerio Mastandrea. È la quinta volta che lavorate insieme. Perché l’hai scelto?
Perché dopo La prima cosa bella, dov’era un figlio che elaborava il rapporto con la madre e il padre assente, volevo vederlo dall’altra parte. Lui stesso è diventato genitore per la prima volta dopo quel film del 2010, anche in lui c’è un interrogarsi continuo sulle domande che implica la paternità. La madre ha un destino naturale: porta in grembo il figlio, lo nutre, lo cresce. Quello del padre, invece, è più complesso.

E Galatea Bellugi?
L’ho vista e molto apprezzata in Gloria! di Margherita Vicario. Mi ha colpito perché ha un vissuto toscano: la sua nonna paterna è di Magliano, ha trascorso molte estati lì e, pur essendo di nazionalità francese, parla il toscano della maremma. Ha qualcosa di naturale, sembra spuntare tra i rovi, passa facilmente dall’allegria alla collera, è credibile nel ruolo di questa contessina le cui cicatrici ci dicono molto di una vita travagliata.

E poi c’è la tua terza volta con Valeria Bruni Tedeschi. Mi sembra che la sua Giuliana Marziali sia uno dei personaggi più “scarpelliani” nel senso di Furio: qualcuno che, a un certo punto, può fare una follia per amore.
La conosciamo come vivace socia di Adriano, con cui forma lo studio Sereni-Marziali. All’inizio porta energia, scuote il misantropo, ma anche lei ha un dolore dentro. E capiamo quando ci tiene a lui, quanto vorrebbe stargli accanto. Sul copione era un piccolo personaggio: Valeria lo infiamma, l’accende di una luce romantica. Vale per lei l’antica regola: non esistono piccoli ruoli ma piccoli attori. E lo stesso posso dire di Anna Ferraioli Ravel, un talento impressionante (era l’influencer burina di Un altro Ferragosto, ndr). Gli inglesi dicono: “show, don’t tell”. E lei fa vedere senza spiegare.

Antonello&Montesi
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Mastandrea e Bruni Tedeschi, ma anche Francesco Bruni come co-sceneggiatore insieme a Carlo Virzì (anche compositore), Luca Bigazzi per la fotografia, Jacopo Quadri al montaggio. Si torna sempre dove si è stati bene?
Negli anni non ho lavorato sempre con gli stessi collaboratori, ma stavolta avevo voglia di stare in famiglia. Volevo intorno persone che mi vogliono bene e alle quali voglio bene. Il motivo non saprei dirlo, è misterioso anche per me. Certe scelte avvengono in modo naturale, senza elucubrazioni. La creazione di un film è anche la somma delle persone che scegli di avere accanto.

L’anno scorso hai festeggiato il trentennale dalla tua opera prima, La bella vita. Non ti chiedo un bilancio, ma cos’è cambiato in questi anni?
La vita e la morte sono temi che mi interessano sempre di più. Quando sei giovane non ti poni il problema della fine, crescendo acquisisci la consapevolezza che arriveranno i titoli di coda. Pensa a Ella & John – The Leisure Seeker: un ultimo viaggio per evitare l’epilogo miserrimo dell’ospedalizzazione e viverne uno sconsideratamente glorioso. Anche La prima cosa bella parlava del fine vita, illuminato dalla gioia di vivere che rappresentava il carattere della protagonista. In questi anni ho fatto commedie pure e noir come Il capitale umano, storie romantiche come Tutti i santi giorni e film civili con sfumature lisergiche come Tutta la vita davanti. Ma il cuore di tutto è sempre lo stesso, ce lo insegnano i più grandi, Charles Dickens su tutti: penetra nelle anime dei personaggi con empatia e compassione, prendi qualcosa di molto doloroso e prova a sorriderne.