Nel lessico degli Oscar, il “dark horse” è un film o una persona che, improvvisamente, spariglia la gara, supera la concorrenza e si conquista un posto al sole al momento delle candidature. La storia è piena di questi casi, con produzioni, attori, attrici che hanno vinto la statuetta più pesante del panorama cinematografico senza raccogliere i cosiddetti “premi precursori” (soprattutto i riconoscimenti dei vari gruppi critici sparsi in tutti gli Stati Uniti). D’altronde i corpi elettorali non coincidono, quindi è poco attendibile pensare che i frontrunner dell’award season siano sovrapponibili con i vincitori degli Oscar.

Al momento, considerando i precursori e il tipo di campagna impostata, Everything Everywhere All at Once sembra essere il più lanciato per la 95esima edizione degli Academy Awards. Presentato quasi un anno fa e distribuito in primavera, è diventato il maggior incasso dell’indipendente A24 (circa 100 milioni di dollari in tutto il mondo) e rappresenta un crocevia di più tendenze: il multiverso e la cinefilia, la commedia e l’avventura sci-fi, immigrazione negli Stati Uniti e integrazione nell’immaginario americano, temi LGBT ed evocazioni di cinecomic. Più del film conta ciò che rappresenta, eppure, a parte La forma dell’acqua e Nomadland (annata condizionata dalla pandemia), negli ultimi anni il premio per il miglior film è davvero il meno prevedibile di tutti.

Everything Everywhere All at Once
Everything Everywhere All at Once

Everything Everywhere All at Once

Dopotutto il meccanismo elettorale dell’Academy è costruito proprio per evitare un vincitore annunciato. Per designare le nomination, ogni settore vota per la propria categoria (i registi votano i registi, gli scenografi scelgono gli scenografi e così via). Ogni elettore può indicare una classifica di cinque nominativi con relativi punteggi, entra in cinquina chi ha raccolto sia un numero minimo di voti necessario sia il maggior numero di voti secondo il sistema ponderato (si divide il numero dei votanti per il numero delle nomination più uno) e non chi ha raccolto più voti in assoluto. L’obiettivo è garantire una candidatura a chi piace tanto a pochi e non a chi piace mediamente a tutti. L’unica categoria aperta a tutti è quella del miglior film, dunque la possibilità di controllare davvero tutti i votanti risulta meno plausibile.

Tornando ai “dark horses”, negli ultimi anni abbiamo visto alcuni film che, rimasti in ombra prima degli Oscar, ottengono qualche nomination pesante se non vere e proprie statuette. Nel 2022 abbiamo avuto il caso di CODA, prima distribuzione in streaming a vincere il premio principale (Apple TV+ 1 - Netflix 0) senza aver ricevuto alcun alloro analogo nella stagione dei premi, mentre nel 2017 la vittoria clamorosa di Moonlight su un titolo più pop come La La Land ha dimostrato il funzionamento del sistema (un film poco visto ma amato, soprattutto dal circuito indie e dalla comunità afroamericana).

Ancora diverso il caso di Parasite, che nel 2020 ha vinto quattro premi pesanti (film, regia, sceneggiatura, film internazionale), evidenziando la volontà del corpo elettorale di mettere in luce un film eccentrico rispetto all’occidente ma completamente in dialogo all’umore socio-politico americano di quel momento. Un’evoluzione in direzione grottesca del vincitore dell’anno precedente, il più edificante Green Book, apparentemente il più tradizionale dei “migliori film” ma che in realtà rappresenta il desiderio di premiare un film largo, capace di dialogare con il pubblico più dei suoi predecessori (La forma dell’acqua, Moonlight, Il caso Spotlight, Birdman, 12 anni schiavo…).

In un certo senso sono scelte mature e davvero politiche, che descrivono la volontà dell’Academy di farsi movimento. Determinando, tuttavia, lo slittamento di senso dei premi, con i temi (certi) che prevalgono sulla qualità (arbitraria), l’intercettazione del clima contemporaneo sulla ricerca di un titolo che possa incastonarsi nell’immaginario. Derivano da ciò i premi – condivisibili o meno non importa – che riguardano soprattutto le categorie della sceneggiatura: quelli a Sian Heder (CODA), Emerald Fennell (Una donna promettente), Taika Waititi (Jojo Rabbit), Barry Jenkins (Moonlight) o Jordan Peele (Get Out) sono anche riconoscimenti politici (i film e/o loro stessi come rappresentanti dell’inclusione), mentre premiare James Ivory (Chiamami col tuo nome), Kenneth Branagh (Belfast) o Spike Lee (BlacKkKlansman) significa onorare cineasti da tempo in attesa di consacrazione da parte dell’Academy.

Tár (credits: Focus Features, LLC.)
Tár (credits: Focus Features, LLC.)

Tár (credits: Focus Features, LLC.)

Perciò dobbiamo guardare a questa stagione attraverso una lente che va al di là delle nostre convinzioni o dei nostri gusti, perché l’Oscar, piaccia o no, resta l’unico premio a rappresentare qualcosa nell’immaginario e farsi canone (anche popolare) per il futuro. Insomma, ci sembra che tra i front runner (The Fabelmans, Gli spiriti dell’isola, Elvis, Top Gun: Maverick) il più potente assieme a Everything Everywhere All at Once sia Tár.

Il film di Todd Field ha tutto ciò che serve per piacere all’Academy di oggi: dimensione d’autore (Todd Field, al terzo film in vent’anni), grande interpretazione (Cate Blanchett, a caccia del terzo Oscar), personaggio titanico (un’acclamata direttrice d’orchestra lesbica e feroce), tema caldo (l’abuso di potere, la cattiva condotta, il sesso come merce di scambio). Magari un po’ troppo per il miglior film, magari troppo lungo (due ore e mezza) e divisivo (nonostante le polemiche è certamente “un film piaciuto tanto a pochi”), se la giocherà sicuramente per l’attrice (ma se la diva bianca ed engagé deve vedersela con la star cinese Michelle Yeoh) e la sceneggiatura originale (Variety l’ha pubblicata in esclusiva, segno che vogliono spingerla), due statuette super politiche.

Eppure ci sembra che manchi qualcosa. Titoli che sembravano solidi competitor si sono sgonfiati coi mesi, in primis i tre diretti da registe, tre storie ad alto tasso femminista: l’arthouse Women Talking di Sarah Polley, l’epico The Woman King di Gina Prince-Bythewood, il giornalistico She Said – Anche io di Maria Schrader. Dopo due vittorie consecutive (Chloé Zhao per Nomadland e Jane Campion per Il potere del cane), quest’anno si rischia di non avere una donna in gara per la miglior regia, categoria che negli ultimi quindici anni ha premiato solo in due occasioni un uomo statunitense (Joel e Ethan Coen nel 2008 e Damien Chazelle nel 2017), lasciando che la statuetta andasse a registi sì dentro il sistema ma provenienti da altri paesi (i messicani Alfonso Cuarón, Alejandro González Iñárritu e Guillermo del Toro, i britannici Danny Boyle e Tom Hooper, il francese Michel Hazanavicius, il taiwanese Ang Lee, il sudcoreano Bong Joon-ho). Quest’anno gli americani in gara potrebbero essere i Daniels, cioè Daniel Kwan and Daniel Scheinert per Everything Everywhere, e Steven Spielberg per The Fabelmans.

Aftersun
Aftersun

Aftersun

Ma supponiamo che troverà spazio anche una regista e allora perché non scommettere sulla scozzese Charlotte Wells per Aftersun? Non solo l’Academy non ha timore nel nominare esordienti e chi dirige film di nicchia, ma ci sembra che Aftersun possa rappresentare quel film d’autore caldo, aperto ed emozionante che ciclicamente colpisce il cuore degli elettori (Manchester by the Sea, Room, Chiamami col tuo nome, Cold War, Drive My Car). Dalla sua ha la presenza del lanciatissimo Paul Mescal, in coppia con la piccola Frankie Corio (attenzione, i giovanissimi piacciono sempre agli elettori), e molto probabilmente vedremo Wells in gara per la sceneggiatura originale, ma non sembra così assurda l’ipotesi di vederla in corsa tra i registi, spinta dai colleghi ben disposti a puntare su una giovane donna all’opera prima così da garantirle un maggiore potere contrattuale.

E, allo stesso mondo, non ci parrebbe strana la presenza (più quotata) di Ruben Östlund. Triangle of Sadness è il suo primo film in lingua inglese e per il mercato internazionale, una satira socio-politica che potrebbe giocare la stessa partita di Parasite con quell’allegoria sulla lotta di classe ben sottolineata dal film. Quella di Östlund è una regia solida e arrogante che potrebbe piacere ai colleghi, così come non ci stupirebbe vedere candidati il film, la sceneggiatura e gli interpreti (la filippina Dolly DeLeon tra i non protagonisti).

E sempre dall’Europa, in particolare dalla Germania, nazione non proprio fortunatissima agli Oscar, arriva Niente di nuovo sul fronte occidentale, che a questo punto ci sembra il titolo su cui sta puntando di più Netflix, un war movie che adatta per la terza volta un romanzo noto e amato (la prima trasposizione vinse l’Oscar per il miglior film nel 1930, la seconda per la televisione ebbe il Golden Globe nel 1979), rileva un notevole impegno industriale in Europa e il recupero di un genere classico senza dimenticare il messaggio pacifista legato alla guerra in corso.

Niente di nuovo sul fronte occidentale (credits: Reiner Bajo)
Niente di nuovo sul fronte occidentale (credits: Reiner Bajo)

Niente di nuovo sul fronte occidentale (credits: Reiner Bajo)

Ma forse il vero “dark horse” che tuttavia si sta progressivamente imponendo è l’outsider indiano RRR, un action epico lungo tre ore, il film più costoso mai realizzato a Tollywood con 72 milioni di dollari, che ne ha incassati 175 in tutto il mondo, arrivato in Italia grazie a Netflix. Acclamato dalla critica, non selezionato dall’India come candidato nazionale per il film internazionale, sta raccogliendo qualche alloro non solo per la produzione ma anche per la canzone e le musiche. Finora l’industria cinematografica indiana, una delle più importanti e redditizie del mondo, non è stata granché considerata dall’Academy (tre candidature tra gli stranieri in totale, un Oscar alla carriera a Satyajit Ray, l’exploit britannico The Millionaire parlato anche in hindi e con l’hit Jai Ho): che sia arrivato il momento?