Poiché non siamo nati ieri e dato che il cinema ci piace anche per la sua capacità di immolare la verità sull’altare della finzione per trasformarla in una nuova verità, non ci appassiona la polemica sull’accuratezza storica di The Woman King. A un grande intrattenimento spettacolare – e questo promette il film di Gina Prince-Bythewood – chiediamo ritmo incalzante e capacità di coinvolgere, non una lezione di storia. Che spetta ad altri, titolati a impartircele. Il problema è che The Woman King è la pretesa di una lezione di storia mascherata da intrattenimento spettacolare.

All’origine del progetto c’è Maria Bello (il soggetto è suo), la brava attrice di A History of Violence, che, nel 2015, dopo una trasferta nella repubblica africana del Benin, ex Regno di Dahomey, ha scoperto la storia delle Agojie, le guerriere vergini che formavano uno tra i pochi eserciti femminili documentati. Soggetto molto affascinante, forse troppo in anticipo, tant’è che nessuno studio si è reso disponibile a puntarci un grosso budget. Il successo di Black Panther cambia le carte in tavola, lo statuto divistico di Viola Davis (anche produttrice con il marito) consolida l’operazione e ora eccoci di fronte a una delle produzioni più precise nel definire lo spirito del tempo.

The Woman King è teoria e tecnica del cinema epico hollywoodiano: struttura solida che si fonda su un intreccio elementare, personaggi archetipici fino allo schematismo, contesto più evocato nell’estetica che colto a livello antropologico, riduzione in funzione del messaggio sociopolitico. Funziona? Certo, perché, anche se è un po’ grossolana, è curiosa la commistione di action all’altezza del period drama, versione tribale del woman’s film (non manca il melodramma, super prevedibile ma con il contributo degli dei) e retorica a volte teatrale e a volte parossistica.

Ma per capire davvero la funzione di un film del genere dobbiamo appellarci alla trama. Che vede, nella prima metà dell’Ottocento, il continente africano sfruttato dai colonialisti europei e americani che se ne servono come principale bacino per la tratta degli schiavi. Il Dahomey è minacciato dal vicino regno di Oyo e la leggendaria generale Nanisca vuole convincere il re Ghezo a mettere fine alla tratta in favore della produzione e del commercio dell’olio di palma (“I visionari vedono dove gli altri non vedono” si bea Nanisca). Nel frattempo, Nawi, recalcitrante per un matrimonio combinato, viene affidata dalla famiglia alle Agojie: le strade della recluta e del generale sono destinate a incrociarsi. Fatalmente.

The Woman King
The Woman King
The Woman King

Non manca niente, in The Woman King: la carismatica leader tormentata dal passato, la giovane ribelle che fa cambiare le prospettive, l’indomita aiutante che ci vede lungo, il re illuminato ma insidiato da una moglie arrampicatrice, il nemico trucido e brutale (l’africano al servizio degli invasori), lo straniero alla ricerca delle radici (un brasiliano fin troppo muscoloso che segue un amico schiavista ma desideroso di conoscere la terra della madre, schiava importata dal Dahomey).

E non manca lo spirito del tempo, con una vasta teoria di temi afferenti all’ampia sfera del post-colonialismo (l’identità rubata, l’appropriazione culturale, lo sfruttamento delle risorse altrui) e a quella dell’empowerment femminile (il matriarcato, l’autodeterminazione, senza dimenticare una troupe a prevalenza di donne afrodiscendenti). Ciò che manca, in The Woman King, non è tanto l’accuratezza storica quanto l’onestà intellettuale. Perché, d’accordo, quella delle Agojie è una parabola notevole, però, ecco re Ghezo antischiavista anche no.

L’idea propugnata dal film è che la valorosa comandante dell’esercito femminile abbia interrotto, grazie alla sua capacità belligerante e al suo sguardo lungo, la tratta degli schiavi, salvando il popolo del Dahomey e, per emanazione, quello di tutto il continente, ergendosi a simbolo di ribellione e resistenza contro gli invasori. Le cose non sono andate esattamente così e la semplificazione fallace finisce per riscrivere una storia che la maggior parte di noi occidentali non conosce bene. Niente di nuovo, il cinema è pieno di questi esempi, però da un’operazione così politicamente impegnata, che vuole dare voce e rappresentanza a chi è rimasto fuori dal mainstream, forse era lecito chiedere qualcosa di meno elusivo (magari uno spiegone, come quello appiccicato in apertura).