Casa, una nozione che si reinventa nella vita transitoria di una vacanza all’insegna di eccezione e viaggio: così per il padre e la figlia dell’esordiente scozzese Charlotte Wells nel suo Aftersun. Si reinventa, la casa, e si riscrive nello spazio esiguo del frangente, allo stesso modo in cui padre e figlia creano la loro intimità mai vissuta prima, lui separato dalla madre della ragazzina (grande prima prova di attrice per Frankie Corio).

“Casa”, per la figlia, diventa lui, quel padre malinconico, un uomo che a trent’anni molti di più ne sente sulle spalle, che cammina in bilico sul baratro di una disperazione mai esplosa abbastanza, anzi, sommessa tanto da inquietare lo spettatore, a ogni momento. Casa è un tappeto che lui compra (sono in Turchia, ospiti di un resort che un tempo è stato di lusso). Un tessuto che è come fosse il tappeto volante della loro diaspora d’amore. Su quel tappeto/casa, il padre si sdraia in cerca di conforto, nell’intimo di sé a pezzi, e la figlia da qualche parte di sé lo ha capito.

Casa è la stanza d’albergo che la ragazzina con la sua piccola telecamera riprende, i letti, la sagoma del padre scura contro la finestra mentre in forma di meditazione mattutina fa Thai Chi, il mobilio ridotto al minimo come lo sono spazio e tempo di quella loro vacanza anomala, tutta all’insegna di una intimità famigliare declinata secondo parametri asimmetrici, e spontanei. Da poco il padre ha lasciato Edimburgo, ora racconta alla figlia come non abbia mai sentito di appartenere a quei luoghi d’origine, a quella “casa”, e glielo confida mentre la accarezza sulla fronte, amorosissimo, dolce, per quanto sia assolutamente sradicato, lo stesso è capace di darle protezione. La figlia no, lei una casa sa di averla, là dove sua madre al ritorno dalla vacanza la aspetterà, salda, rassicurante e costante come una sponda che non si discute – come una casa.

Aftersun
Aftersun

Aftersun

Ma adesso “casa” è altro anche per lei, è quel tempo speciale con suo padre, così come dopo, diventata adulta, la casa da ricostruire nel pensiero sarà ricordare istante per istante il tempo strano e speciale di quel viaggio, tempo perduto in modo struggente.

“Casa” nella mente è un punto ideale, lì dove ci siamo sentiti accolti, amati. A posteriori, ma anche in prospettiva: non solo guardando indietro, anche in avanti. “Casa” è dove decidiamo di essere, di vivere, di stabilirci a stare perché così ci ha detto, dettato, imposto il cuore.

La coppia protagonista di As bestas di Rodrigo Sorogoyen, dalla Francia si trasferisce nella Spagna rurale e radicale sino all’oscurantismo del fanatismo più escludente. Lasciando a Parigi una figlia e un neonato nipotino, per installarsi a vivere marito e moglie hanno scelto un minuscolo villaggio su un’altura dell’aspra Galizia, e lo hanno fatto perché lì l’uomo, Antoine, da giovane viaggiatore ci era capitato e aveva avuto una sorta di visione.

Là, su quei monti verdi e romiti, aveva capito avrebbe voluto andare a vivere, lì si era convinto fosse la sua occasione di stabilità, un orizzonte lontano dalla casa “letterale”, ma scelto, desiderato, poi infine raggiunto con il brio con cui ci si appropria di ciò che si sente sicuro, inspiegabilmente familiare. Così, con la moglie Olga, Antoine mette su un’attività, una casa e un terreno da coltivare con amore, a simbolo della loro nuova esistenza, diversa, vicina alla natura, un’esistenza ecosostenibile, una scelta, nelle sue intenzioni di leggerezza, profonda.

As bestas
As bestas

As bestas

Tutto è approntato, tutto dovrebbe decollare, e invece presto quello stesso tutto incomincia a franare, mostrando che anziché una casa e un riparo, quel che la coppia ha trovato radicandosi lassù è il contrario: guerra quotidiana di una tensione senza fine, esclusione, il pericolo crescente di venire scacciati, esiliati, rinnegati.

Lui, l’uomo, Antoine, per i montanari abitanti del villaggio, è e resta “il francese”, guardato con ostilità, oggetto di scherno prima, poi di razzismo e discriminazione via via più violenti: ogni sogno di casa è perduto, la casa non è più casa, né il luogo d’origine, quello da dove sono partiti, è più riconquistabile. “Torna a casa” chiede, implora la figlia nel tentativo di portar via la madre rimasta sola lassù tra quelle montagne aspre, tra gente avversa e nemica.

Ma casa non c’è più, almeno sino a quando anche i morti non siano stati seppelliti ritrovando la loro casa nella terra, sino a quando ogni cosa non abbia trovato dimora nella spiegazione. Perché casa sono i luoghi, certo, ma casa anche sono i dolori, tutti gli affanni, e quanto deve potersi acquietare per concedere possibilità di tirare il fiato, rifare casa, credere nella propria casa tanto da vivere – di nuovo.