Coming-of-age e, al contempo, metacinema. È il nuovo film di Steven Spielberg, The Fabelmans, presentato in anteprima italiana nel programma della Festa del Cinema di Roma e di Alice nella città: nelle nostre sale arriverà con 01 Distribution.
Vincitore del Premio del Pubblico a Toronto, scritto da Spielberg assieme al sodale drammaturgo premio Pulitzer Tony Kushner, è interpretato da Michelle Williams, Paul Dano, Seth Rogen, Gabriel LaBelle e Judd Hirsch, con le musiche di John Williams, la fotografia di Janusz Kaminski e il montaggio di Michael Kahn e Sarah Broshar, tutti contributi tecnici di assoluto valore.
In questo resoconto personale dei suoi esordi audiovisivi, ed esistenziali tout court, ci prende per mano per due ore e mezzo, accorciabili senza colpo ferire, e conferma tutta la sua abilità, anche aneddotica di storyteller, sempre estendendo la misura autobiografica a compendio audiovisivo, anche questo esperienziale, dalla visione epifanica di The Greatest Show on Earth all’incontro – speculare – con il più grande regista vivente, John Ford – e sarà gustoso vedere chi lo interpreta.
Il medium è il messaggio, per farla breve, e il messaggio – e il medium – di Spielberg lo conosciamo, e bene: la matrice autobiografica, lungi dal canalizzarsi – e banalizzarsi? – nell’idiosincrasia, si dispiega nell’inclusione, si prodiga nel suscitare immedesimazione, si concreta nel film (di uno) per tutti, con una virtù – dire tutto – e un difetto – dirlo con il contraccettivo. La licenza è creativa, l’emersione del vulnus, dall’antisemitismo al bullismo fino al dirimente divorzio dei genitori, puntuale, al contempo didascalica e (auto)contenuta. Dov’è dunque il vertice di The Fabelmans, il suo ubi consistam? Ci arriviamo.
Intanto, vi presentiamo i Fabelmans: l’ingegnere Burt (Paul Dano), il cui seminale lavoro informatico porterà l’intera famiglia dal New Jersey all’Arizona fino alla California; la sensibile Mitzi (Michelle Williams), pianista dotata e professionalmente mancata; il figlio Sam (Gabrielle LaBelle, bravo), su cui Steven si riverbera, e le sue sorelle; l’amico Bennie (Seth Rogen), da capire se del padre o della madre. Sam viene folgorato dallo Show di Cecil B. DeMille, segnatamente dalla catastrofe ferroviaria, che riproduce in Super8, imbarcando suggestioni dei Lumière e del suo stesso cinema (nel successivo Escape to Nowhere di Sam balugina Salvate il soldato Ryan di Steven…), quale atto fondativo, primigenia creazione, istanza autoriale in fieri. Il primo pubblico, oltre a quello familiare, è fatto di scout, da cui viene un apprezzamento diffuso, ovvero meno contrastato: se Mitzi lo appoggia incondizionatamente, Burt è al più ondivago, stigmatizza “l’hobby”, e a sparigliare sarà lo zio Boris (Judd Hirsch, tanta roba), il grande ebreo che traccia il solco tra arte e famiglia, rubando la scena di The Fabelmans.
Poi arriverà la scuola, la high school, in cui Sam viene bullizzato, si innamora, della cristianissima e spassosissima Monica (Chloe East), e sopra tutto riprende a filmare, complice una sontuosa Arriflex. Ma prima c’è un filmino rivelatore, un family movie, in cui il ragazzo riprende qualcosa che forse non va, ma c’è: ha a che fare con i genitori, che sono invero quelli di Spielberg stesso, sul cui divorzio l’autore proietta una luce – si legga responsabilità – differente rispetto a quanto avesse precedentemente rivelato.
Fin qui tutto bene, l’insegnamento di Mitzi, “Fai quello che il tuo cuore dice di dover fare in modo da non dover a nessuno la tua vita", servirà da testamento, e quanto Spielberg l’abbia fatto proprio lo sappiamo: parlano i suoi film. E parla anche questo The Fabelmans, che è un buon film, non ottimo: la parte scolastica è troppo scolastica, Michele Williams – su cui siamo parziali: non la sopportiamo, mai – è in odore di misoginia, lo sguardo sovente è addomesticato, la cura dei genitori sacrifica il resto, in termini di focus se non verità.
Ma a The Fabelmans, al di là della pletorica commistione di arte e vita, va riconosciuta una dote: saper evocare il filmmaking oltre il mero dato autobiografico, oltre il pletorico romanzo di formazione cinematografica. Su un duplice versante. Primo: dramma familiare, boy-meets-girl, high school drama, dramma sociale, commedia balneare e chi più ne ha ne metta, quel che attraversa Sam è suscettibile di altrettanti radicamenti nel genere. Secondo: ancor più interessante, dalla rinuncia alla censura per il filmino incriminante al trattamento divistico del suo carnefice, quel che attraversa Sam è suscettibile di altrettante dimensioni cinematografiche, del cinema quale arte industriale. E allora filmala ancora Sam!