Come carpire l’essenza del Re? Come portare sullo schermo la leggenda di Elvis Presley? Nel 1979 ci aveva provato John Carpenter con Elvis, il re del rock, dove il protagonista era Kurt Russel. Nacque un sodalizio, forse senza quell’incontro non avremmo mai visto 1997: Fuga da New York. Russel aveva conosciuto Elvis quando aveva dodici anni, sul set di Bionde, rosse, brune… di Norman Taurog, in cui The King faceva la parte di un aviatore.

Le connessioni legate al mito non conoscono confini, e non si fermano all’arte. Superano la musica e il cinema. In Elvis, presentato fuori concorso a Cannes, il regista Baz Luhrmann non cerca di restituire la verità, la sua non è un’indagine. Sarebbe impossibile. Quindi procede seguendo l’unica strada percorribile: darne una visione soggettiva, personale. Per questo nel film si colgono due anime.

Nella prima parte il cineasta australiano resta fedele a sé stesso. Il montaggio è ultraveloce, da videoclip. Le immagini si accavallano, rallentano, i lustrini dominano la scena. A un certo punto scatena anche la musica moderna, come aveva fatto in Il grande Gatsby. Poi rallenta. È come se Luhrmann avesse trovato una chiave, fosse riuscito a cogliere l’essere umano. Così l’epopea si fa più intimista, ci si concentra sui tormenti, sul tracollo. L’impero vacilla, il trono è in pericolo. Qui Elvis regala i momenti migliori, con il suo incedere fluviale, vicino alle tre ore.

L’intuizione vincente è di puntare sulle grandi hit: Love Me Tender, Suspicious Minds, Hound Dog. E sulle memorabili esibizioni in palcoscenico. Il cuore accelera, le palpitazioni aumentano. Merito di un ottimo Austin Butler, che si cala nel personaggio, canta, infiamma le platee.

 

A essere nascosto è forse il talento di Tom Hanks, sommerso dal trucco prostetico. Qui fa la parte del colonnello Tom Parker, lo storico manager di Elvis. È il narratore, l’uomo che vuole discolparsi. “Non sono stato io a ucciderlo”, continua a ripetere. E chi è allora il colpevole? Luhrmann prova a rispondere. È stata l’ossessione per il pubblico, per le grida, per il successo. È stata la fama a travolgerlo, l’amore per quello a cui ha dato vita non gli ha permesso di avvicinarsi a chi andava oltre il microfono, oltre il talento di facciata.

Elvis è una parabola di ascesa e caduta, è un viaggio nella stravaganza, nella follia che si fa talento. Prende tante direzioni diverse, si ramifica, ma fin dall’inizio confessa di essere un racconto parziale. Proprio perché non si può essere totalizzante. Il filtro è il Colonnello Parker, contraltare del genio di Elvis. In fondo sono le facce della stessa medaglia: entrambi troppo innamorati delle luci della ribalta, entrambi alla fine risultano le caricature di loro stessi.

Parker è un vecchio, rappresentato come un paziente ospedaliero che si siede alla roulette di un casinò. L’affresco è tragicomico. Ma nell’universo di Luhrmann non si può rimanere legati alla realtà. Le sfumature si fanno surreali, ciniche. Essere Elvis Presley era troppo anche per Elvis stesso. A essere certo è il fatto che però lui vive, nel cuore, nella mente, nella passione. È il cinema che ha bisogno di renderlo concreto, tangibile, perché, come si sentiva in Moulin Rouge!, “Show Must Go On”, in ogni situazione. Commovente.