Ci sono storie che sembrano somigliare a mille altre, altre in cui non sembra accadere nulla d’importante, altre ancora che solo rifulgono come epifanie. Aftersun è tutte queste cose, l’opera prima della scozzese Charlotte Wells che spiazza e sorprende per gentilezza del tocco, complessità che è sinonimo di naturalezza, sguardo sofisticato eppure popolare.

Una storia d’amore, tra un padre e una figlia, ricostruita dalla lei odierna pensando a quand’era bambina, negli anni Novanta, e con lui passò una vacanza in un resort turco. Quello che vediamo è un papà giovane, sappiamo che ha avuto la figlia ad appena vent’anni, capiamo che vive a Londra e non sta più in Scozia con la mamma della bambina. La loro è una fuga alla fine dell’estate, un’evasione dalla quotidianità, lo spazio per riconoscersi prima di un altro distacco.

La ricostruzione di questo passato è affidata alla tessitura tra la memoria e le immagini, perché padre e figlia si fanno testimoni della loro stessa vacanza, fotografandosi con la polaroid e registrando quei filmini che un tempo costituivano il patrimonio degli home movies. E con questo strumento Wells struttura un discorso struggente sullo scarto tra la produzione dei ricordi che scegliamo di immortalare e la permanenza di quelli che si sedimentano dentro di noi e non ci abbandonano mai.

Aftersun – letteralmente il doposole, proprio la crema – vive di ellissi, squaderna non detti, elude la retorica. Film tattile, dall’estetica perfino sensuale, tagliato dal sole pieno e calato nelle tenebre della notte, che nell’indagare l’entità di un legame dai risvolti non sempre canonici tira in ballo argomenti a loro modo ingombranti per una bambina (orientamenti sessuali, depressione, ansia sociale, pericoli predatori).

Aftersun
Aftersun
Aftersun

Lo fa affrontandoli con schiettezza e sensibilità, come si conviene a un racconto di formazione libero e sensuale. E che rivela uno sguardo potente nel catturare le luci e le ombre della vita, concentrarsi sul particolare capace di fissare l’universale, leggere il trauma con la lente della rinascita.

Un film misurato e implacabile, malinconico ed empatico, che nella sofisticatezza trova l’autenticità, nel fuoricampo le risposte alle domande che segnano l’infanzia dunque l’esistenza, raggiungendo l’apice della tensione emotiva nello stesso momento in cui sa dare voce a una commozione mai gratuita, onesta quanto necessaria per ricostruire per ricostruirsi.

Aftersun si esalta con la strepitosa interpretazione di Paul Mescal (il folgorante protagonista di Normal People, la magnifica serie tratta dallo splendido romanzo di Sally Rooney), attore fortissimo che sa trasmettere potenza e fragilità, carisma e paura, erotismo e dolcezza, completamente in sintonia con l’inedita, straordinaria Frankie Coro.

L’hanno apprezzato alla Semaine de la Critique perché è difficile non riconoscere quanto metta in luce un talento cristallino, l’hanno voluto ad Alice nella Città perché è un film che rispecchia l’identità del festival sui e per i giovani, l’hanno preso quelli di MUBI perché un esordio così va protetto e lanciato con gli strumenti adeguati. Con una parte finale indimenticabile (“Avrei voluto rimanere di più”). Ad avarcene.