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Tradurre è sempre tradire, checché ne dicano i conservatori che si ergono a difensori dei testi sacri, a maggior ragione se la trasposizione o l’adattamento riguarda un caposaldo del teatro che da più di centotrent’anni viene messo in scena. La persistenza di un classico trascende il tempo e lo spazio e sta nel suo interrogare costantemente la società che cambia. Tradire, d’altronde, ha a che fare soprattutto con la possibilità di leggere tra le righe delle azioni senza smentirle, riposizionare comportamenti alla luce di nuove consapevolezze, spingersi oltre affinché quel testo parli ancora e non si limiti a riferire le parole per come sono scritte.
Alle prese con Hedda Gabler, una regista come Nia DaCosta – millennial afroamericana che esplora i generi nel mainstream – non può che rileggere, rivisitare e ripensare il capolavoro di Henrik Ibsen. Lo fa a partire dal titolo, Hedda, in cui l’espunzione del cognome sembrerebbe avere la funzione di mettere al centro la questione dell’identità di una donna schiacciata dall’eredità paterna (un generale Gabler, che le ha lasciato una scatola piena di pistole e la predisposizione al loro utilizzo) e dalle esigenze del marito, George Tesman, un mediocre che aspira a una cattedra universitaria.


Il dato esteriore ancorché concettuale è nei cambiamenti. Dalla Oslo di fine Ottocento si passa all’Inghilterra degli anni Cinquanta, in una villa al di sopra delle possibilità finanziarie di Hedda e George. È lo scenario della festa organizzata dai coniugi Tesman per consolidare la posizione sociale: Hedda controlla tutto, volteggia e flirta, finché l’arrivo improvviso di Thea, vecchia compagna di classe della padrona di casa fuggita da un matrimonio infelice che ha una relazione intellettuale e sentimentale con Eileen Lovborg, una scrittrice che aspira alla stessa cattedra di George.
Personaggio maschile nell’originale di Ibsen, Ejlert Lovborg diventa donna mantenendo tutto il côté “privato” (è l’amore perduto e dannato di Hedda) ma sottolineando anche la difficoltà delle donne nel farsi accettare in ambienti professionali e culturali dominati dai maschi. È un gender switch che funziona nella misura in cui è coerente con il progetto a voltaggio femminista dell’autrice, che vede in Hedda una parabola sulla libertà femminile, tra il coraggio di chi attua un percorso di emancipazione (Thea) e l’addomesticamento impossibile di chi vuole ottenere tutto (Hedda, che per Lovborg è “un purosangue non domabile”).


In questo senso ha un impatto meno ideologico il coinvolgimento di interpreti afrodiscendenti, in primis Tessa Thompson come incandescente protagonista, vera brat girl tendente al bitch: il razzismo è un tema laddove si punta il dito contro il privilegio bianco nell’accesso agli spazi del potere, ma non c’è retorica quando a essere nero è uno dei personaggi più ambigui (il giudice Brack, che desidera Hedda e la ricatta al momento opportuno).
Più queer (le altre del “triangolo” femminile sono la straordinaria Nina Hoss e Imogen Poots) che black, Hedda volteggia tra le righe di Ibsen come un musical mancato (il repertorio s’alterna alla colonna sonora di Hildur Guðnadóttir) e trova la scintilla della morbosità, del gioco di società, della dissoluzione di un’élite, del mélo camp (“Perché non mi hai sparato?” chiede Eileen a Hedda, che le risponde con un colpo al cuore: “Perché sapevo che lo volevi”). Intrigante e sciolto, si rivela un po’ troppo programmatico nella seconda parte. Presentato in Grand Public alla XX Festa del Cinema di Roma, dove DaCosta ha ricevuto il premio Progressive alla Carriera.