Ventisette anni dopo la sua opera prima, Auguri professore, Riccardo Milani torna a scuola. Dal malinconico apologo tratto da Domenico Starnone – lo scrittore che più di tutti ha riconfigurato il racconto scolastico, microcosmo sociopolitico dove inquadrare con ironia e precisione gli umori e i dolori tanto degli insegnanti quanto degli studenti – a Un mondo a parte, suo quindicesimo lungometraggio, la scuola continua a essere campo – e minato – degli idealisti messi alla prova. Che sia il professor Vincenzo Lipari, ex sessantottino convinto che gli alunni debbano essere anzitutto civili e democratici, o il maestro Michele Cortese, che si fa trasferire dalla periferia romana a un borgo nelle montagne abruzzesi per riconquistare la passione perduta, i personaggi di Milani sembrano restituire gli obiettivi e le inquietudini di una generazione che ha scelto l’insegnamento come missione, estensione di un’azione politica, prolungamento di una militanza che si trasforma.

Curiosamente, sia Auguri professore che Un mondo a parte sono film invernali, con il superamento della stagione più rigida a restituire un’evidente metafora del percorso di formazione (davanti e dietro la cattedra), ma anche alludendo a quanto il lavoro dell’insegnante vada al di là del mero impiego professionale: valeva negli anni Novanta, quelli dello spaesamento ideologico, e regge oggi, con la fuga dalla pazza folla – e dall’inautenticità – del post-pandemia.

5.1.2
5.1.2
Silvio Orlando in Auguri professore (Webphoto)

E Milani, uno che ha fatto tanta televisione a ottimi livelli, esce dall’inattendibilità di molta fiction accomodata su scenografie implausibili e sulla retorica di riforme fuori dal quotidiano: le scuole di Milani sono in pericolo eppure resistenti, fatiscenti ma vive, precarie come i docenti che saltano da un istituto all’altro per sopravvivere. Mondo a parte, nella misura in cui sembra interessare poco a un cinema italiano: di film sulla scuola (come istituzione, microcosmo, teatro, percorso di crescita) ne vediamo sempre di meno, i capolavori sono lontani (da Diario di un maestro a La scuola), i titoli più recenti non sono sempre entusiasmanti (La mia classe, La scuola è finita, Il rosso e il blu, La scuola più bella del mondo, Beata ignoranza) e la serialità parte dalla scuola per poi uscirne (non parliamo del sempre lodato SKAM Italia ma di Baby e Un professore).

Così come vediamo poche storie che arrivano dall’Abruzzo, regione periferica nell’immaginario del cinema italiano, un po’ perché il centro Italia fa sempre fatica a imporsi, un po’ perché non abbiamo una vera tradizione di cinema montanaro e un po’ perché quel pezzo di Adriatico è stato oscurato da altri litorali. È sempre istruttivo ricordare che di Vitelloni, cioè i neet del dopoguerra, si parlava a Pescara, città natale di Ennio Flaiano, e che quel film nasceva proprio nella città abruzzese per poi spostarsi altrove (sì, la Rimini di Federico Fellini mai citata, ricreata però sul Tirreno e quindi consegnata alla leggenda).

Virginia Raffaele e Antonio Albanese in Un mondo a parte
Virginia Raffaele e Antonio Albanese in Un mondo a parte

Virginia Raffaele e Antonio Albanese in Un mondo a parte

(Claudio Iannone)

Milani, che nell’aquilana Pescasseroli ha trovato una seconda casa, è il regista che più di tutti è stato attento all’Abruzzo: sono passati venticinque anni dal suo secondo film, La guerra degli Antò, magnifica commedia scarpelliana che fotografa quel che resta della generazione punk nell’umidità invernale (ci risiamo) di Montesilvano (vicino Pescara: memorabile il finale con i protagonisti al mare e La stagione dell’amore in sottofondo), ventuno da Il posto dell’anima, che fotografa le lotte operaie nell’hinterland vastese (ah, le fabbriche, altri luoghi fantasma del nostro cinema), e ora ecco Un mondo a parte, girato tra Pescasseroli, Opi, Villetta Barrea e lago di Barrea, Sperone, Civitella Alfedena e Gioia dei Marsi, Milani (ma i paesi della storia hanno nomi immaginari, Rupe e Castelromito, un po’ come la Sagliena che Ettore Margadonna inventò per Pane, amore e fantasia sulla base di Palena, anche se poi le riprese si svolsero vicino Roma, e l’Acitrullo ideata da Maccio Capatonda per Omicidio all’italiana e ricreata a Corvara nel pescarese).

E questo avvicinamento al territorio non solo sottolinea quanto nello sguardo di Milani ci sia il desiderio di dar voce a comunità messe da parte (nei titoli di coda dell’ultimo film, gli attori sono citati con i paesi di provenienza, come negli Antò), ma conferma anche l’affetto che rivolge a tutti i suoi personaggi. Non c’è, nel cinema di Milani, la cattiveria della commedia all’italiana: è chiaro nella descrizione dei buffi antieroi dei primi film, confermato da quel Tutti pazzi per amore che insieme a Romanzo criminale ha davvero ribaltato la serialità italiana tra gli anni Zero e i Dieci, ribadito dai film girati con la moglie Paola Cortellesi (se Come un gatto in tangenziale è tra le massime commedie degli ultimi vent’anni non è solo per il ritmo ma anche perché mette in scena contraddizioni e volgarità di entrambi i mondi in conflitto). Un affetto che fa rima con rispetto, verso i personaggi e le loro battaglie, come si vede anche in Nel nostro cielo un rombo di tuono su Gigi Riva e Io, noi e Gaber, due documentari che rivelano quanto Milani resti coerente a un’idea di cinema umanista e dalla parte di chi resta a parte.