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F1 - Il film - Courtesy of Warner Bros. Pictures
Sembra un film anni 80-90, realizzato però con le strabilianti tecniche di oggi. Da questo punto di vista il regista Joseph Kosinski (insieme allo stesso produttore Jerry Bruckheimer, e allo stesso sceneggiatore, Ehren Kruger) non si discosta poi molto dal già riuscitissimo, e fortunato, Top Gun: Maverick.
Dai jet supersonici di allora ai bolidi quattroruote sui circuiti più celebri del mondo (da Silverstone a Monza, da Las Vegas a Abu Dhabi, con annessi piloti reali, da Hamilton - anche produttore del film - a Leclerc, da Verstappen ad Alonso, e product placement livello luxury brands), il passo è dunque molto più breve di quanto possa sembrare.
Allo stesso tempo si attinge a piene mani dai canoni e dalla retorica del classico film sportivo a stelle e strisce - con inevitabile sottotesto western - per quello che riguarda il ritorno della vecchia gloria dal talento smisurato che, però, nella "sua" epoca (gli anni '90, appunto), rimase solamente una gigantesca promessa mai mantenuta. Il riscatto passerà (?) dall'ingaggio per la APXGP, scuderia che appartiene ad un altro ex pilota (Javier Bardem, perfetto in un ruolo che gli consente di gigioneggiare senza limiti), nonché vecchio amico del protagonista.
Anarchico per vocazione, il Sonny di Brad Pitt (61 anni, uno in meno di Tom Cruise, altro miracolo genetico oramai francamente inspiegabile) incarna l'utopia romantica dell'atleta - seppur acciaccato dagli eventi (l'incredibile incidente che anni prima lo allontanò dalla F1) e dal passare del tempo - che insegue ancora il sogno di ritrovarsi a "volare" in quella frazione di secondo dove anche il rumore assordante si annulla per divenire silenzio. E che sa cavalcare il nuovo (Sonny si aggiorna, studia) ma senza lasciarsi soggiogare dalle innovazioni tecnologiche, cosa che vale tanto per le sessioni di allenamento (old style le sue) quanto per la performance in gara.


Brad Pitt in F1 - Il film - Courtesy of Warner Bros. Pictures
È lì naturalmente che F1 - Il film dà il meglio di sé, in termini di pathos e adrenalina, mettendosi sulla scia di (e forse superando) due ottimi titoli come Rush e il più recente Le Mans '66 - La grande sfida. Ed è sempre lì, sulle piste, che dai e dai il disegno, la strategia apparentemente folle del pilota "superato" dalla storia si compie. Perché la rivalità col compagno di scuderia, il ben più giovane, rampante, social-oriented JP (Damson Idris) è sicuramente generazionale ma non per questo meschina: la "visione" che porta l'uomo proveniente dal passato, retaggio analogico del tramonto novecentesco, è quella di chi rimanendo in equilibrio precario sulle regole (della vita, dei protocolli FIA) riesce a ribaltare l'ovvio, a far recuperare terreno e decimi di secondo. Anche a costo di far entrare ripetutamente, volutamente ma non per questo in maniera "irregolare", la safety car. Che assume quasi i contorni di un ancoraggio alla realtà, alla pari dei vari rituali quotidiani (l'orologio vicino alla foto con il padre, la carta pescata dal mazzo e infilata nella tasca della tuta senza vederla), con cui Sonny si autoconvince di poter sfidare la sorte. E la morte.
Ecco, in un impianto così terribilmente capace di coniugare l'eroismo edonista e la "perfezione" del blockbuster moderno, a mancare totalmente è l'apparato tragico, cosa che invece in Maverick trovava il suo apice con la ricomparsa di Iceman/Val Kilmer e la successiva dipartita. E che, naturalmente, segnava in modo determinante il recente Ferrari di Michael Mann (regista peraltro che qui, in alcuni momenti, viene abilmente evocato).
È dunque questa la più grande scommessa di F1? Inseguire l'epica ad oltre 300km/h senza passare dalla tragedia: "guardalo, sta volando". Per poi dissolversi nuovamente, e cercare ancora una volta, altrove, la chimera di quell'attimo in cui essere tutt'uno con il silenzio.