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Ci sono i Teletubbies.
Non letteralmente — e però sì, letteralmente. In 28 anni dopo di Danny Boyle, le immagini scorrono a raffica: volti, rituali, guerre, addestramenti, bambini e pupazzi grotteschi (i Teletubbies appunto) in un montaggio frenetico che sembra prodotto da una mente febbrile che ripassi compulsivamente il proprio inconscio mediatico, come a dire: questo eravamo. Questo è rimasto nella testa di chi sopravvive. Una memoria infantile decomposta che, ricombinata, diventa subito perturbante.
Boyle apre così il primo movimento della sua nuova trilogia: non solo un sequel, ma un grande afterthought sull’apocalisse come lunga durata, come processo più che come evento. Non c’è più l’epidemia: c’è l’Inghilterra dopo ventotto anni di epidemia. Il mondo di 28 giorni dopo — che già allora parlava del nostro tempo, del nostro trauma ancora non elaborato — oggi si riformula come riflessione su ciò che siamo diventati dopo aver attraversato il nostro vero trauma, quello pandemico, e il nostro esilio geopolitico, quello della Brexit.


L’isola. Holy Island.
Il nome stesso è già tutto un programma: il villaggio fortificato, il pontile che si chiude come il cordone ombelicale di una nazione che ha scelto l'autarchia psichica prima ancora che economica. Non c’è più mondo esterno, ma un dentro e un fuori assoluti. E dentro vige una pedagogia della sopravvivenza: bambini educati alla caccia rituale dell’infetto, padri che insegnano ai figli a colpire il nemico, che è sempre l’altro, l'altro contaminato. Ogni caccia è un rito di passaggio. Ogni passaggio è una militarizzazione dell’innocenza.
Boyle spinge il paradosso fino alla litania di Boots di Rudyard Kipling, che risuona sotto il montaggio convulso dell'addestramento: marciare, uccidere, sopravvivere. Come se i fantasmi imperiali dell’Inghilterra vittoriana avessero trovato reincarnazione nelle nuove regole sociali del post-virus. Ogni società addestra i suoi bambini al futuro che desidera o che teme. Qui la guerra è il futuro. Ma anche il passato. Il montaggio — letteralmente — sovrappone i due: armature medievali e armi da fuoco contemporanee, croci cristiane e feticci postatomici. La storia d’Inghilterra come eterno addestramento al collasso.
Ecco la dialettica. Da un lato il montaggio sincopato, quasi subliminale, che schizza le immagini come in un sogno da febbre tropicale. Dall’altro l’immagine larga, scope, 2.76:1: spazi dilatati, distese di verde, natura riconquistata. La verticalità ansiogena del montaggio e l’orizzontalità contemplativa del paesaggio. La bellezza dell’Eden e la putrefazione dei corpi: la carne marcia dei slow-lows (i nuovi infetti quasi-lumaca), le masse nervose degli alpha, dei berserker, i capibranco della mutazione. Boyle gioca qui la sua carta iconologica più audace: riscrivere l’immaginario stanco dello zombie aggiornandolo come se fosse un nuovo stadio evolutivo, non più l’orda acefala ma la tribù postumana. Il virus come speciazione.


Il viaggio dell’eroe, però, è ancora quello antico.
Prima il figlio Spike segue il padre Jamie nel rituale dell’iniziazione: cacciare, uccidere, diventare adulto. Ma il padre si rivelerà inadatto, infingardo, moralmente imperfetto, incapace di reggere l’ethos che pretende di insegnare. E allora il secondo viaggio comincia: il figlio con la madre, viaggio di maturazione non più guerriera ma affettiva. Un viaggio memento mori e memento amoris insieme: il coraggio non come uccidere, ma come restare. Accudire. Amare nel limite.
In questa dialettica tra guerra e cura, Boyle introduce il suo gesto più simbolico: il neonato. Figlia di un'infetta, la bambina nasce sana. La vita — biologicamente — resiste. Il futuro non è garantito, ma è ancora possibile. E questa nascita, questa piccola rottura nel ciclo della morte, risuona come un piccolo miracolo cristiano: il giorno del giudizio è passato, i morti sono risaliti dalla terra, eppure qualcosa di puro ancora germina.
Del resto, l’immaginario cristiano attraversa tutto il film come filigrana mai del tutto sotterrata: le croci che punteggiano l’isola, il villaggio come monastero armato, il Bone Temple costruito dal dottor Kelson (Ralph Fiennes come un Marlon Brando esiliato in un Isola del dottor Moreau laico, vestito di iodio e armato di soffiatori velenosi). La chiesa delle ossa come memento mori collettivo. Non c’è differenza, dice Kelson, fra morti e infetti: sono tutti ugualmente umani, egualmente perduti. Eppure celebrati. Il tempio funebre come ultima liturgia laica di un mondo post-redenzione.


Ma c’è anche l’ironia. Quella britannica, tagliente, inevitabile. L’Inghilterra qui è letteralmente isolata. Non perché sia stata respinta: perché si è lasciata respingere. Brexit è il virus mai nominato ma onnipresente. La quarantena perpetua è insieme sanitaria, politica, culturale. È l’Inghilterra che si auto-espelle dal consesso dei vivi per ritornare a un’illusione di purezza identitaria. Una regressione che Boyle osserva con un misto di rabbia e malinconia. Come guardare un vecchio parente che sceglie volontariamente l’Alzheimer ideologico.
Rispetto all’immaginario ormai frusto dello zombie pop — saturo di repliche, parodie, streaming — 28 anni dopo riscrive il genere come parabola più complessa: la mutazione biologica come metafora politica, il viaggio horror come racconto di formazione interiore, la visione apocalittica come metafisica dell’Occidente esausto.
E certo: qui il rischio del pasticcio — dell’accumulazione iconologica, della sovradeterminazione di senso, della sinfonia che sconfina nella cacofonia — è sempre dietro l’angolo. Ma Boyle, come un acrobata, continua a stare in equilibrio sul filo del troppo, concedendo al film quella densità nervosa e contraddittoria che lo rende, proprio per questo, più interessante.
La vera paura non è più il virus.
È chi siamo diventati dopo avergli sopravvissuto.