Dopo Nel nostro Cielo un rombo di tuono, Milani continua la sua operazione nostalgia, via doc, nel secondo Novecento. Prima Riva, ora Giorgio Gaberščik, per tutti Gaber. Prima di tutto milanese. Poi cantante, cantautore, inventore del teatro-canzone, attore, filosofo, intellettuale, cabarettista, polemista, “libero ma senza retorica” (Fossati dixit).

A vent’anni dalla morte, riaffiorano nel film nostalgie e meraviglie del signor G, faro e frusta di quell’Italia amata e strapazzata tra cabaret, cinema, tv e soprattutto teatro. Non un’artista, ma un grande musicista prima che paroliere, cantore di un Paese che si risveglia dalla guerra a suon di jazz e rock’n roll nella Milano da bar e dei Trani a gogò.

Si parte con il ventenne Gaber che canta il proletariato da osteria e biliardi, presagisce le devastazioni del consumismo (Com’è grande la città). Duetta, sperimenta linguaggi, cerca spalle (Jannacci e Celentano), invade e sfrutta la tv “una cosa violenta per chi la fa e per chi la vede”. Basta un decennio, però, per passare da innocenti canzoni d’amore alle polemiche d’autore, mentre l’Italia comincia a ribollire di sogni d’utopia e di rivoluzione.

Dopo i dischi, la Rai, il boom, arriva il crac dei Settanta - quelli, per intenderci di un’ideologia conquistata a fatica – e la fuga controvento dal piccolo schermo al palcoscenico. Il signor G inventa un’universo drammaturgico in bilico tra cantautorato e performance, tra poesia e rivolta. Canta e s’indigna, grida e schiaffeggia le promesse mancate, spalleggiato dal genio corrosivo di Sandro Luporini, co-autore di più gemme musicali dell’epoca.

Il palcoscenico si fa sismografo di una democrazia tanto giovane quanto fragile. Le ideologie falliscono, il mercato trionfa (Quando è moda è moda), la libertà che un tempo era partecipazione cioè intervento sulle cose, ora è sconfitta di una generazione movimentista e terrorista, antiborghese e consumista.

Il Gaber secondo Milani (e secondo i fatti) è elitario e popolare. Borghese e comunista (ma meno di Luporini). Intanto, tra l’Io e il Noi, spunta l’amore esclusivo per Ombretta Colli – “come dice Adorno, la fedeltà oggi è la vera trasgressione” - e la figlia Dalia, primo motore di quest’omaggio sentito ed esaustivo che non scade nell’enciclopedia, né tantomeno nell’idolatria.

Milani, anche sceneggiatore, con saggezza e grazia, usa il Novecento e il patrimonio scenico-televisivo per ridare a Gaber ciò che è suo, oggi di questa Italia. Con fluidità discorsiva e sguardo sociologico, ne esalta la straripante debordanza teatrale, la dinoccolata indignazione civile, la rabbia anticonformista e corsara, la smania di torturare il pubblico accarezzandolo.

Teatro come canzone, come espressione e ostensione del corpo, luogo in cui la parola stessa diventa gambe, braccia, sudore, fino allo sfinimento.

Intanto accorrono gaberiani d’ogni età e genia culturale per cucire il filo biografico: da Claudio Bisio a Jovanotti, da Fabio Fazio a Vincenzo Mollica, passando Gianni Morandi, Mogol, Mario Capanna, Gino e Michele, Ivano Fossati.

Nel mezzo, c’è spazio pure per ricordare le burle intellettuali, la lucida follia cabarettistica con Jannacci, le sgambate “presleyane” con Celentano, e il varietà autoironico con Mina, ad oggi un “momento di televisione quasi insuperabile”.

Insomma, un ritratto sentito, a tutto tondo, musicale e confessionale, brioso e ammalinconito, straripante e disilluso.

Milani, nella coralità di voci, si mostra nostalgico senza remore, archeologico, anche dovizioso senza pretese di esclusività.

Gaber come veggente di una Nazione che passa in qualche decennio dall’ottimismo al nichilismo. Con tutta la rabbia, con tutto l'amore.