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28 anni dopo © 2025 CTMG, Inc. All Rights Reserved.
[28 ANNI DOPO DI DANNY BOYLE – PERICOLO SPOILER]
Ricordati che devi morire. Ricordati che devi amare. Sono forse i due insegnamenti più significativi che riceve il 12enne Spike durante il suo cammino lontano dalla “comfort zone” dell’isola ben presidiata.
Come da tradizione in un filone che unisce l’immaginario post-apocalittico e zombie, anche in 28 anni dopo, il ritorno di Danny Boyle al franchise cui diede vita nel 2002 (28 giorni dopo), perno centrale della vicenda è il coming of age di un preadolescente chiamato dapprima a diventare “uomo” (la prima esplorazione sulla terraferma insieme al padre, per imparare ad uccidere), poi a prendere su di sé il peso della fine (la seconda sortita, clandestina, insieme alla madre ormai incapace a badare a se stessa per via della malattia), in ultimo il taglio netto al cordone ombelicale che lo tiene legato alla famiglia, alla comunità, alla protezione dal mondo.
Per prendere la sua strada. Ecco, appunto, la strada, The Road, Cormac McCarthy, poi il film di John Hillcoat: mancavano gli zombie lì, certo, ma nel deserto dell’umanità figlio di una non meglio precisata catastrofe globale si muovono un padre e un figlio, quest’ultimo nato (proprio come Spike) sullo sfondo di uno scenario già definitivamente compromesso.
Non esiste il prima, per queste nuove generazioni (non è così anche per la Ellie di The Last of Us, dopotutto?), ma solamente un presente in cui imparare a sopravvivere e un futuro incerto entro cui tentare di vivere.
Memento mori. E memento amoris: la morte è inevitabile, tanto in un mondo “normale” quanto – forse di più, certo – in un mondo che ha perso qualunque connotato di civiltà, per di più popolato da “infetti”. Ecco allora che il memento amoris, la centralità e l’importanza delle relazioni affettive, assume un’importanza decisiva, determinante per chi, non avendo contezza del “prima” ha dalla sua la purezza di un’umanità non ancora soffocata, ferita, fiaccata dal dolore. E compromessa dal cinismo.
Spike mette a rischio la sua esistenza non arrendendosi di fronte al male della mamma, contravviene al monito paterno (figura che viene metaforicamente “uccisa” nel momento in cui viene tradita non a caso la centralità degli affetti…), si mette sulle tracce di un reietto (Ralph Fiennes), un tempo dottore, guarda caso l’unico – al di fuori dell’isola, sulla terraferma – capace di prendersi cura tanto della vita (non tenta di uccidere gli infetti, li neutralizza: forse per studiarli al fine di trovare una cura?) quanto della morte (il Bone Temple, che poi è il sottotitolo del sequel già in post-produzione diretto da Nia Da Costa, release prevista nel 2026).
È con questa nuova consapevolezza, nell’accettazione che la morte, la perdita, non coincide con la fine dell’amore, che il ragazzino potrà affrontare il suo nuovo cammino: sulla strada un nuovo incontro – nel film di Hillcoat era la nuova “famiglia” con cui si univa il bambino… – lo porterà con buona probabilità ad allacciare rapporti con un’altra realtà. Capeggiata da chi, 28 anni “prima”, ancora fanciullo, vide sopraggiungere il giorno del giudizio. E, quasi sicuramente, ha perso di vista il memento amoris...