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Reflection in a Dead Diamond
Al quarto tentativo ce l'hanno fatta: Hélène Cattet e Bruno Forzani, coppia di registi francesi attiva dal 2001 (con una manciata di cortometraggi fino al 2006, più un episodio nel collettivo O is for Orgasm), dopo Amer (2009), Lacrime di sangue (2013) e Laissez bronzer les cadavres (2017), tutti lungometraggi ospitati in vari festival, da Locarno a Torino, arrivano finalmente nelle sale italiane con Reflection in a Dead Diamond (dal 3 luglio, con Lucky Red).
Certo, immaginiamo, non sarà un'uscita monstre (e probabilmente non sarà facile trovarlo nelle sale al di fuori delle città capozona), ma è un inizio: presentato in concorso alla scorsa Berlinale, Reflection in a Dead Diamond è un'esperienza totalizzante di cinema in purezza, governato da un sensazionale lavoro sul montaggio di immagini e suoni. Un film che non può lasciare indifferenti.
E che si inserisce in maniera coerente, organica, in un percorso, quello dei due cineasti classe 1976, da sempre interessati a decostruire e rigenerare i codici di generi e filoni fortemente caratterizzati: dal giallo all'italiana di maestri come Bava e Argento al noir francese, fino ad arrivare a questo plateale omaggio del fumetto (Diabolik, Kriminal…), dei fotoromanzi e del cinema spionistico (italiano ed europeo) anni '60 e '70.


Fabio Testi in Reflection in a Dead Diamond
Antepongono l'importanza del linguaggio, fatto naturalmente di immagini e suoni, di split screen e altro ancora, al dominio della parola sul racconto, procedono per suggestioni ipnotiche e sensoriali, affidandosi al volto e alle movenze di un (attempato) protagonista, incarnato da Fabio Testi (altro aggancio ad un immaginario che non ha bisogno di ulteriori spiegazioni), che trascorre le sue giornate in un hotel a strapiombo sulle rive della Costa Azzurra. Gli basta la vista fugace di un corpo di donna, e la successiva sparizione di lei, per rimettere in moto un vortice di sogni e ricordi, relativi al se stesso più giovane: conosciuto come John D. (Yannick Renier nella versione giovanile del personaggio), era una spia costretta ad affrontare missioni in un mondo che stava cambiando rapidamente.


Reflection in a Dead Diamond
L'altro aspetto davvero affascinante del film - che immaginiamo uno come Quentin Tarantino non farebbe fatica ad amare (basterebbe forse la clamorosa sequenza di combattimento all’interno del bar malfamato...) - è intrappolato nel suo stesso mistero: quello che stiamo vedendo sono i ricordi di un vero agente o di un attore che era chiamato ad impersonarne le gesta?
Anche grazie allo strepitoso montaggio del sodale Bernard Beets, alle sovrapposizioni e alle ellissi, Cattet e Forzani ben si guardano da fornire svilenti didascalie per dirimere il dubbio, ben consapevoli, ancora una volta, che la potenza del cinema risiede proprio in questo, nel non dire-spiegare necessariamente ogni cosa, ma nel lasciar scorrere, quasi fondendosi, sintassi e semantica.
Lasciando così che lo sguardo e l'udito si perdano e si ritrovino in questo continuo gioco di riflessi, rifrazioni e diffrazioni, tra immagini esplose e suoni lisergici.