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Resurrection - © DANGMAI FILMS
Meno futuro, più passato. Il presente per cogliere momenti di passaggio decisivi (l'adolescenza, su tutti, specie in Enzo di Laurent Cantet, diretto da Robin Campillo, La petite dernière di Hafsia Herzi e nel bellissimo Jeune Mères dei fratelli Dardenne), dolorosi (lo sfaldamento di coppia, la depressione post partum in Die, My Love di Lynne Ramsay), inquietanti (tutto il discorso sulla IA di Mission: Impossible – The Final Reckoning<CF2026> e del meno riuscito Dalloway).
E il ragionamento sul formato, sul dispositivo (dall’aspect ratio al supporto, digitale o in 35mm), per riposizionare lo sguardo sul/nel tessuto narrativo, soprattutto quando si tratta di riprendere in mano questioni legate al recupero di memorie, individuali e/o collettive che siano.
Provando a superare il solito steccato che ci limita a decretare di ogni film la sua bellezza, la sua riuscita o meno, di seguito azzardiamo un flusso di coscienza visivo all'indomani della 78ma edizione del festival di Cannes, attraversando le varie sezioni e la cronologia delle fruizioni, ignorando totalmente le scelte delle varie giurie (del Palmarès, d’altronde, già si è detto molto, a partire dalla grande affermazione di Jafar Panahi con Un simple accident), tentando una sorta di remake “concettuale” di Sound of Falling di Mascha Schilinski.


Sound of Falling - @ Fabian Gamper / Studio Zentral
È il primo titolo che ci torna in mente per racchiudere un po' tutto di quanto detto poc’anzi: aspect ratio di 1.33:1 (più comunemente noto come 4:3), piani temporali che si sovrappongono, suggestivo tuffo nell'anima di un unico luogo dove in oltre un secolo di storia si sono avvicendate vite che ora riemergono, quasi sfiorandosi, toccandosi senza soluzione di continuità, catturate in foto d'epoca o nel tentativo di fuggire da polaroid anni 70.
Ad adottare lo stesso “rapporto d’aspetto” tra larghezza e altezza delle immagini, almeno altri quattro film profondamente radicati nel tempo (passato) che raccontano: Two Prosecutors di Sergei Loznitsa, tornato al cinema di finzione e nella Russia staliniana del 1937 per raccontare l’odissea legale di un giovane avvocato idealista per denunciare i crimini dell’NKVD, un film glaciale, kafkiano e mefistofelico; Nouvelle Vague di Richard Linklater, dichiarato omaggio (ovviamente in bianco e nero) all’onda francese nata alla fine degli anni 50 che si concentra su Jean-Luc Godard e la realizzazione del suo primo film, Fino all’ultimo respiro; Magellan di Lav Diaz e La misteriosa mirada del flamenco, eccentrica e barocca opera prima del cileno Diego Céspedes (vincitore in Un Certain Regard) che cattura i primi anni 80 di una comunità queer nel deserto, alle prese con lo spettro dell’AIDS e lo stigma del contagio.


La misteriosa mirada del flamenco
Tematica, quest’ultima, che riemerge prepotentemente in Alpha di Julia Ducournau, in maniera più metaforica in The Plague, opera prima di Charlie Polinger, ma anche in Eddington di Ari Aster, che torna all’epoca Covid (2020) ed estende il concetto di “contagio”, per una pandemia dilagante come il trumpismo, tra fake-news, teorie cospirazioniste, sceriffi negazionisti (Joaquin Phoenix) e sindaci finto-progressisti (Pedro Pascal), con inevitabile deflagrazione che non farà prigionieri.
In questa costante ricerca di senso tra le maglie di un passato (vedi anche i primi anni 80 di Fuori di Martone) che la nostra era post-digitale sembra voler sradicare senza pietà, si muove anche Romería di Carla Simón, che torna al 2004 per seguire la storia della diciottenne Marina (Llúcia Garcia): la ragazza deve affrontare un viaggio per incontrare i nonni biologici mai conosciuti, per una questione burocratica, e quell’incontro, anche con zie e zii varie, darà il via (anche visivamente, con inserti in Video8) ad un processo di ricomposizione di innumerevoli frammenti, appartenenti ad una memoria – l’esistenza dei suoi genitori naturali, che Marina non ricorda perché morti di AIDS quando lei era ancora bambina – fino a quel momento solamente immaginata, anelata. Ancora una volta, dunque, dopo Alcarràs ma soprattutto Estate 1993, la regista spagnola – che a sei anni perse veramente il padre e la madre a causa dell’AIDS – chiede al cinema di farsi strumento e complice per rintracciare schegge di sé.
Probabilmente lo stesso procedimento adottato dalla giapponese Chie Hayakawa, cineasta classe 1976 che in Renoir inquadra la solitudine dell’11enne Fuki, nel 1987 (farsi due conti è abbastanza semplice), che letteralmente inventa le sue giornate per sopperire alla mancanza di un padre ricoverato in ospedale, prossimo alla fine, e una madre in carriera perlopiù assente: “Mi sento connessa con la me stessa di quel periodo: fare questo film mi ha aiutato a trovare questa connessione”, ha spiegato la regista.


Sempre frammenti, stavolta di un paese, di un popolo, quello brasiliano (sarebbe da incorniciare già solo per le incredibili facce di contorno chiamate ad abitare questo film), che ricostruisce il pernambucano Kleber Mendonça Filho, che con l’indimenticabile O agente secreto porta ad un nuovo livello la semantica relativa al difficile rapporto tra rappresentazione e Storia: apparentemente seguendo le traiettorie della spy story, il regista di Aquarius e Bacurau ma, soprattutto, del doc Retratos fantasmas (2023), ci fa ripiombare nella (sua) Recife del 1977, in pieno Carnevale, e già la sequenza d’apertura (in quel distributore di benzina polveroso, con cadavere in corso di putrefazione malcelato da qualche cartone e poliziotti che dire corrotti è far loro è un complimento), è ben più che una dichiarazione d’intenti. Da quel momento in poi la vicenda di Marcelo, che in realtà si chiama Armando (Wagner Moura, eccellente), diviene il pretesto per costruire un impianto che, capiremo poi, qualcuno sta cercando di ricostruire nel presente, attraverso – appunto – frammenti (audio) di quasi 50 anni prima. Epoca che Mendonça Filho riporta in superficie creando un magico equilibrio tra clima del terrore (siamo in piena dittatura militare) e sprazzi di vitalissimo immaginario collettivo (si pensi a tutto il sottotesto sullo Squalo di Spielberg e la relativa, assurda, favolosa storia della gamba mozzata che se ne va in giro per i parchetti notturni…).


O agente secreto (2025) - © 2025 CINEMASCOPIO / MK PRODUCTION / ONE TWO FILMS / LEMMING
Immaginario, e memoria (della Cina, del cinema), che letteralmente riempie ogni angolo del nuovo lavoro di Bi Gan, Resurrection, epopea sci-fi che prende le mosse in un futuro post-apocalittico, sì – tempo e luogo dove l’umanità ha scoperto che per vivere in eterno non deve sognare – ma che riporta in vita le fantasmagorie del secolo scorso.
Gli unici che continuano a sognare sono i Fantasmer, creature mostruose capaci di vedere quello che gli altri non vedono: ridestandone uno si rimetterà in moto una storia, quella del cinema, che ci riporta alle origini del muto, passando per l’espressionismo tedesco, fino agli sgoccioli del vecchio Millennio. Perché smettere di sognare equivale a spegnere la nostra immaginazione. E con lei il cinema.