Fino a qualche anno fa, MUBI era quella piattaforma un po' snob che amavano solo gli spettatori più raffinati, quelli che al cinema vanno con gli occhialetti tondi e il taccuino per annotare citazioni. Oggi, dopo aver conquistato milioni di spettatori "normali" e attirato investimenti milionari, è diventata una superstar globale del cinema indipendente. Insieme ad A24 e Neon, rappresenta una nuova generazione di etichette cinematografiche che sfuggono alle definizioni tradizionali: non sono né autoriali in senso classico, né mainstream da blockbuster. Potremmo definirlo un “cinema boutique”, capace di parlare contemporaneamente a hipster incalliti e a spettatori cresciuti tra Netflix e TikTok.

Chi guida questo nuovo cinema (e perché ci riesce)

Dietro questi successi non troviamo produttori vecchio stile con sigaro e cappello di feltro, ma imprenditori agili e visionari. Daniel Katz, ex finanziere e CEO di A24, ha trasformato una piccola startup in una specie di Apple del cinema indipendente, oggi valutata oltre 3,5 miliardi di dollari. Tom Quinn, fondatore di Neon, ha deciso che vincere Palme d’Oro al Festival di Cannes sarebbe stato il suo sport preferito, ed è ormai imbattibile (vedi Parasite, Titane, Triangle of Sadness). Efe Çakarel, invece, fondatore di MUBI ed ex Goldman Sachs, ha preso il cinema d'autore e lo ha reso cool, attraendo investitori come Sequoia e facendo di MUBI un unicorno da un miliardo di dollari.

Cannes vs Venezia: la scelta di campo

Se Cannes fosse un supermercato, Neon sarebbe quello che si piazza davanti all’ingresso e svuota subito lo scaffale delle Palme d'Oro, mentre A24 trasforma ogni film acquistato sulla Croisette in un fenomeno pop globale. MUBI, invece, è come un curatore di gallerie d’arte, che a Cannes scova opere sofisticate come Memoria o Die My Love, trasformandole in eventi culturali internazionali.

Arthur Harari, Justine Triet, Sandra Hüller, Antoine Reinartz (foto di Karen Di Paola)
Arthur Harari, Justine Triet, Sandra Hüller, Antoine Reinartz (foto di Karen Di Paola)
Arthur Harari, Justine Triet, Sandra Hüller, Antoine Reinartz (foto di Karen Di Paola)

Venezia, invece, ha seguito una traiettoria diversa, stringendo un dialogo più stretto con Hollywood e le piattaforme come Netflix. Una via alternativa, meno focalizzata sulla curatela radicale e più attenta a film di grande richiamo e potenziale premiabile. Non necessariamente una scelta meno coraggiosa, ma un diverso equilibrio tra industria e visione.

Cinema boutique: il melting pot dei generi

Questi film non sono semplicemente indie: mescolano con disinvoltura horror sofisticato (pensate a Ari Aster con Hereditary o Robert Eggers con The Lighthouse di A24), thriller sociali provocatori (vedi Triangle of Sadness di Östlund con Neon) e drammi sperimentali che MUBI ha portato al grande pubblico grazie ad autori come Apichatpong Weerasethakul con il surreale Memoria e Park Chan-wook con la sofisticata suspense di Decision to Leave.

Il marketing segue lo stesso schema: non poster banali, ma merchandising da collezione, podcast, eventi speciali e community online appassionatissime, pronte a difendere i loro film preferiti con la stessa energia con cui difendono i gruppi indie su Reddit.

Nel visual qui sopra, tre semplici barre raccontano molto più di quanto sembri: Neon domina in termini di Palme d’Oro, grazie a un’aggressiva politica festivaliera. A24, invece, fa incetta di Oscar (complice Everything Everywhere All At Once) e vola al box office con titoli capaci di combinare audacia e incassi. MUBI, meno orientata ai numeri da record, punta su un ecosistema curatoriale in crescita e su una fedeltà di pubblico che vale più dei milioni.

Queste società sembrano avere trovato una formula magica: riescono a fare soldi senza sacrificare le sale cinematografiche sull’altare dello streaming. A24, ad esempio, punta forte sul rapporto diretto con gli spettatori attraverso membership premium (come la AAA24, praticamente una carta fedeltà per cinefili cool) e serie TV originali che creano dipendenza, tipo Euphoria, Beef e Irma Vep. Neon gioca la carta festival-premi, spendendo tanto in marketing quanto in cappuccini durante le campagne Oscar. MUBI, invece, crea un ecosistema completo, dove la sala cinematografica non è la cenerentola dello streaming, ma parte integrante del progetto, insieme a festival ed eventi speciali in giro per il mondo.

Everything Everywhere All At Once
Everything Everywhere All At Once
Everything Everywhere All At Once

Certo, il modello non è immune da rischi: la dipendenza dai festival e dai premi è elevata e il marketing diventa ogni anno più costoso. La sfida principale è evitare che la crescita esponenziale annacqui la forte identità curatoriale che rende unici questi marchi.

Futuro prossimo: mini-major o boutique per sempre?

Nei prossimi anni potremmo assistere a scenari diversi: A24 potrebbe diventare la mini-major preferita della Gen Z, Neon continuare a dominare Cannes come un cacciatore seriale di premi, e MUBI quotarsi in borsa, espandendo ulteriormente il suo impero cinefilo con catene di cinema dedicate.

In definitiva, il cinema boutique non è una moda passeggera, ma nemmeno un modello privo di incognite. Si muove su una linea sottile tra autenticità e mercato, tra nicchia e pop, tra festival e community. La domanda è: saprà restare fedele a se stesso mentre il mondo – e il pubblico – continuano a cambiare?