Dendelion, Baraban, Léonto e Taraxa. Quattro semi di tarassaco, sradicati da un’esplosione nucleare sulla Terra e catapultati nel cosmo. Costretti ad un’odissea tra pianeti, costellazioni, ecosistemi marini e floreali, vagolano alla ricerca di una nuova terra in cui piantarsi, di un nuovo pianeta che rende possibile l’infruttescenza.

Film di chiusura della Semaine de la Critique a Cannes 2025 (Premio FIPRESCI) e transitato poi al Toronto Film Festival, Alice nella Città porta in Italia la titanica opera prima della giapponese Momoko Seto che ha impiegato nove anni di lavoro per portare a termine un esordio breve (77 minuti), spassoso nei toni, ma narrativamente fragile.

La regista si vota all’animazione, storna la verisimiglianza, svicola dalla logica, cerca il meraviglioso, ammicca al surreale, abbraccia la favola naturalista, personifica quattro baccelli, intensifica i suoni naturali (notevole il sound design di Nicolas Becker), metaforizza il viaggio resiliente e l’amicizia salvifica come struttura narrativa in salsa picaresca, condanna il capitalismo industriale, celebra l’interdipendenza ciclica dell’ecosistema naturale.

Il viaggio dei quattro tremolanti personaggi è, così, pretesto di scoperta, vettore di meraviglia della straordinaria varietà del cosmo, persino cavicchio di denuncia. La fuga interstellare degli acheni è obbligata, di fatti, da una Terra devastata e invivibile, non solo e non più per gli umani (spariti) ma anche per l’ecosistema naturale, costretto ad un’odissea nello spazio, alla faticosa ricerca, però, delle stesse condizioni di vita terrestre.
A Seto va riconosciuta cura estetica (la sgargiante, policroma tavolozza è fotografata della debuttante è Elie Levè), padronanza tecnica, ma la trama a vocazione episodica, a struttura picaresca è piuttosto debole e in fondo programmatica. Soprattutto la dimensione fiabesca diventa, fin troppo dominante ed esibita, diventa incomprensibilmente il grimaldello per per soffocare coerenza, logica consequenziale e verisimiglianza: perché i quattro baccelli non possono stanziarsi nel primo ecosistema naturale? Sono capaci di distinguere tra pianeti diversi e stanziarsi in quello migliore? Cosa li distingue se non la quantità di foglie?

 Seketo compone un (altro) pianeta fatto esclusivamente di animali e piante solidali, salvifici empatici, oscurandone il principio violenza, prevaricazione, principio di sopravvivenza e competizione tra specie.

Esseri di un altro pianeta, dunque, ma non di questo, se il film è metafora naturalista.