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My Father's Shadow
Si fa tanta fatica a considerare My Father’s Shadow il lungometraggio di un esordiente. Perché l’odissea quotidiana di due fratellini a Laos durante le elezioni del 1993 di Akinola Davies JR trasuda già raffinatissimo, simpatetico umanismo, prodigiosa coscienza del mezzo e una promettente estetica dell’immagine.
Se ne sono accorti sia in Inghilterra – è il cavallo su cui puntano per riconquistare la statuetta del miglior film internazionale agli Oscar 2026 – che a Cannes: selezionato quest’anno in Un Certain Regard, il film ha ricevuto la Menzione speciale della Caméra d'Or per la migliore opera prima, nonché primo film nigeriano ammesso alla rassegna cannense.
Ad essere precisi trattasi, infatti, di co-produzione anglo-franco-nigeriana, con MUBI, invece, che si occuperà di distribuire la giornata straordinaria di due fratellini trascinati dal padre dal villaggio di casa a Lagos.
Ci sono sei mesi di arretrati da incassare per il giovane padre, ma la città, attraversata da venti di proteste democratiche, diventa prima palcoscenico e funerale poi dei sogni libertari della collettività: nel 1993, dopo un decennio di dittatura e repressione, il paese più giovane del mondo rivotò alle elezioni presidenziali. Le urne scelsero la democrazia, ma la svolta fu repressa nel sangue.
Il regista scrive a quattro mani con il fratello Wale Davies facendo traboccare gli occhi dei due bambini di un senso di rivelazione onirica, di epifania continua, di scoperta abbacinata, di speranza politica, di vitale meraviglia mista ad angoscia.
Gli sceneggiatori si specchiano nei fratellini Egbo (un doppio debutto d’irresistibile spontaneità), impastando la loro biografia con la Storia, Akinola abbassa la camera ad altezza di bambino ed eleva a potenza il senso generale di confusione, di incertezza trepidante, d’incapacità di decifrare il destino della Nigeria al tramonto del millennio.
Olaremi e Akinola vorrebbero e non capiscono cosa succede a Laos e a papà Fola. Sope Dirisu, infatti, incarna un uomo in recessione esistenziale, morale e politica: appare e scompare, è ombra e presenza, marito e (forse) amante, lavoratore a chiamata e (forse) rivoltoso, padre lontano e fratello in lutto. Una figura a tratti epica, in bilico tra presenza e apparenza, tra cura e fuga, che incarna lo spirito contraddittorio di una Nazione vociante di mercati e addormentata nelle foreste, affamata e trepidante, assetata di birre ghiacciate e accalcata tra bar scalcinati in cui ritrovare un amore sospeso e sperare in una svolta democratica epocale.
Davies riconsegna al presente tutta la rabbiosa malinconia di quella stagione di illusioni perdute: esalta la campagna come quiete e la città come perdizione, componendo una rapsodia d’umanità varia fatta di amabili cialtroni, squinternati passanti, militi bestiali, madri con neonati in grembo, vestiti di mille colori, piatti stracolmi di riso, pickup e motorini, buoi addormentati e uccelli verdi gracchianti.
La fotografia desaturata e granulosa in pellicola di Canute Edwards si muove tra l’esotismo e l’aura vintage, il found fotage di montaggio Guzmán Castro lega il particolare al generale, i dettagli al contesto, i totali ai primissimi piani. Il commento sonoro post-rock, accantona le percussioni afrobeat, per inondare le immagini di poetica malinconia.
Ne esce un film folgorante che è insieme romanzo di formazione, intimismo familista, denuncia politica e documento etnografico, cui si perdona, stavolta senza fatica, anche uno smottamento narrativo dopo il climax: difetto, non marchio di fabbrica. Il prodotto rimane di straziante bellezza.