PHOTO
Tienimi presente
“Tu ci sguazzi nella malinconia” si sente dire Alberto dall’amico di ritorno dall’Australia, uno che si dichiara “più superficiale”, a cui per tranquillizzarsi basta “vedere un film e fumarsi una canna”. È un momento che inquadra benissimo – e dall’interno, senza le semplificazioni e i paternalismi degli osservatori più navigati – il sentimento collettivo di una generazione spaesata, schiacciata tra l’appuntamento con la maturità (e le responsabilità) e il desiderio di credere ancora in un sogno.
Anche se quel sogno sembra ormai impraticabile, tra la grande città che isola e angoscia (quant’è difficile trovare qualcuno disposto ad ascoltare le tue angosce?) e la provincia spalancata sulla paura di non essere all’altezza delle aspettative altrui (i genitori che propongono concorsi pubblici, i parenti che non considerano la regia degna d’esser definita lavoro, ma anche gli occasionali spettatori di un festivalino di modesti corti: “Maestro, siete il nostro futuro!”).
Eppure sarebbe riduttivo leggere Tienimi presente – presentato alla Festa del Cinema di Roma, nella sezione Freestyle – come l’ennesimo autoritratto dell’artista in fieri, un altro quadretto esistenzial-familiare su chi si sente incompleto e alla fine è solo giovane.
Autore (anche sceneggiatore con Davide de Rosa) e protagonista, Alberto Palmiero si mette in scena con un’attendibile versione di sé, un aspirante regista vicino ai trent’anni che, stanco e disilluso, decide di rinunciare al sogno del cinema e lascia Roma per tornare nella natia Aversa, convinto di trovare un porto sicuro. Ritrova una specie di tranquillità, passa le giornate facendo volantinaggio, si concede una possibilità romantica, ma basta poco perché riaffiorino i dubbi, i tormenti, gli assilli: cosa fare davvero della propria vita?


Tienimi presente
Nell’esordio di questo garbato ventottenne ci sono le stimmate di Ferito a morte, il capolavoro di Raffaele La Capria che spunta all’improvviso nelle ricerche di Google a ricordarci un’eredità con la quale confrontarsi sempre, una suggestione per inabissarsi alla rincorsa della “grande occasione mancata” e a chiederci “che cosa ancora ci trattiene?”. Ma, anche qui, la filiazione è suggestiva, perché Palmiero rifugge l’intellettualismo, si mette al centro senza la pretesa di rappresentare alcuno se non se stesso.
E però “si sposta per farci vedere il film”, per farci scoprire un apparato umano fatto di produttori poco affidabili (Gianluca Arcopinto, anche co-produttore del film con Simone Gattoni, in una gustosa apparizione) e singolari operatori culturali (il critico Ignazio Senatore in posa autoironica), venerati maestri (Marco Bellocchio: Palmerio fa la comparsa sul set di Portobello) e giovani promesse (l’amico Mino Capuano, autore del mai dimenticato Quanno chiove), genitori che mascherano la preoccupazione con la rigidità (Elena Fattore e Carlo Palmiero, mamma e papà dell’attore e regista) e amici che aspettano qualcosa che forse mai arriverà.
Al crocevia tra il primo Nanni Moretti (ma senza orizzonte sociopolitica) e la stagione dei malincomici (Massimo Troisi soprattutto), Palmiero sceglie l’autofiction e si muove tra sprofondamento (il sogno, le camminate) e restituzione (la canzone composta con l’amico, il filmino con i genitori), diluisce la rabbia nel disincanto, trova la certezza nell’impaccio, si concede l’amore e si apre al futuro nonostante tutto. Che bravo, Palmiero: teniamolo presente.



