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Malavia
È un immaginario saturo, quello della periferia napoletana, universo che negli ultimi decenni ha prodotto un repertorio di storie che si rincorrono e si confondono nella continua impressione che tutto sia un dejà vu. Se non saturo, è quantomeno difficile confrontarsi con questo panorama antropologico e dire qualcosa di nuovo, che sappia emanciparsi dal crime incardinato sull’esercizio della violenza o evitare il rischio di cedere alla necessità del racconto edificante e moraleggiante.
È qualcosa che pare esser chiaro a Nunzia De Stefano, che con Malavia approda all’opera seconda a sei anni da Nevia, esordio incentrato sul coming of age di un’adolescente che nello squallore quotidiano trova una goccia di splendore grazie alla scoperta del circo. Non c’è niente di davvero originale, anzi: lo svolgimento è così lineare da rivelarsi scolastico, il didascalismo s’attaglia al pedigree morale, i personaggi fanno tutto ciò che ci si aspetta.
Eppure, sarebbe ingeneroso e ingiusto negarlo, l’empatia denota sincerità, la sensibilità non estemporanea, l’adesione al territorio ha radici profonde. Sono i punti di forza di Malavia, che inquadra Sasà, tredicenne che vive con la giovane madre (il padre è sparito durante la gravidanza) e trascorre le giornate ammazzandosi di cannette e giretti con i due migliori amici (figure “tematiche” a definire quanto il concetto di diversità: Nicolas, capoverdiano di seconda generazione, e Cira, che si sente a disagio nel corpo datole dalla natura).
Amante dell’hip hop, “affamato di musica” e dotato di un grande talento, Sasà aspira a diventare un rapper famoso per migliorare le condizioni della madre (della quale è gelosissimo fino alla tossicità) e, così, si avvicina a Yodi, un rapper della old school partenopea che gestisce un negozio di dischi (Giuseppe Sica ovvero PeppOh, autorevole rapper e soulman) e suggerisce al ragazzo di scrivere un pezzo dedicato alla madre. Affascinato dalla possibilità di un facile successo, viene travolto dagli eventi. Ma a che serve avere un talento se non lo si coltiva a partire dalle esperienze nelle quali inciampiamo per rialzarci?


Malavia
(Gianni Fiorito)In fondo stiamo sempre lì: “‘A tiene ‘na cos’ a raccuntà?”, come chiedeva l’avatar di Antonio Capuano in È stata la mano di Dio, ormai diventato altro riferimento ineluttabile per i racconti di formazione sotto al Vesuvio. E di questo parla Malavia, che prende il titolo (spoiler?) dallacanzone che sentiamo sui titoli di coda, a indicarci il percorso di crescita e l’occasione di rinascita, l’affrancamento dal destino criminale e la sublimazione artistica della vita di strada.
De Stefano si mette ad altezza d’adolescente, sta accanto ai suoi protagonisti unendo il piacere dell’osservazione di un reale trasfigurato (l’home movie sui titoli di coda) e l’affettuosa prospettiva di una sorella maggiore che non si lascia suggestionare dalle trappole del sistema. Non stupisce mai, eppure trova il ritmo nel beat, la libertà nelle battle freestyle, la compassione sotto il cappuccio della felpa di Sasà (bravi e autentici i giovanissimi Mattia Francesco Cozzolino, Francesca Gentile e Junior Rodriguez). Prodotto da Matteo Garrone, presentato alla XX Festa del Cinema di Roma nella sezione Freestyle (d’altronde è un film sull’hip hop, no?).



