C’era da aspettarselo: Dracula - L’amore perduto  mantiene le promesse - nel bene e, soprattutto, nel male. Presentato nella sezione Grand Public della Festa di Roma, l’ultimo Besson mette in scena l’eterna lotta tra Salvezza e dannazione come se stesse decorando, con lucine, festoni e coriandoli (digitali), la reliquia del mito. Besson touch riconoscibilissimo: cafone, smargiasso, a tratti divertente, più spesso sfacciatamente indelicato; e oggi intriso di una conversione cristologica che, dopo Dogman, qui trova pane - o meglio sangue -per i suoi denti. Ma cucina povera: l’ingrediente tragico si smarrisce, il lievito teologico non fermenta, e la farcitura spirituale resta un’ipotesi sul piatto.

La premessa è arcinota: Vlad ama Elisabeta, la perde, maledice Dio e diventa vampiro; quattro secoli dopo, fiuta la reincarnazione e ci si getta addosso come una falena sulla lampada. Besson ricalca l’epistolare di Stoker - quel fitto intreccio di lettere, diari, registri, articoli di giornale che nel romanzo originale costruiscono il mito di Dracula - con cambi di tono, escursioni temporali, inserti che ne vorrebbero evocare la lettera rivelandosi tutt’al più cartoline illustrate, souvenir di un Grand Tour gotico dove il turista per caso però sembra proprio la guida. Anche la Lonely Planet religiosa appare pressapochista e confusa: un po’ di manicheismo vecchia maniera, qualche tirata blasfema, fede nella reincarnazione, poche o nulle sfumature.

Dove collocare questo nuovo adattamento? Laddove Browning portava il mito sullo schermo in una forma ancora teatrale e statica; Coppola scolpiva la maledizione del vampiro in un melodramma gotico, sontuoso e funebre; e Murnau/Herzog/persino Eggers lasciavano la peste metafisica colare per le strade, qui la dannazione si traveste da fiera. Con tanto di sequenza “da baraccone”, quando il nostro ritrova l’amata circuendola tra le attrazioni di una fiera parigina: è il momento in cui il film appare più sincero, flirtando con il proprio orizzonte camp. Non è chiaro quanto sia volontario invece il rigurgito trash dell’operazione, dove la confezione pirotecnica, l’allure visiva caramellosa, i gargoyle in CGI con la lucentezza gommosa dei Minimoy, il look da Willy Wonka di Caleb Landry Jones, circondato da vampire-ancelle che sembrano uscite dalla galleria delle regine malefiche, offrono un intrattenimento da parco a tema, una disneyficazione dell’orrore. Il miscuglio di codici genera più straniamento che inquietudine. Besson vorrebbe fare di Dracula una fiaba morale sull’amore e sulla salvezza, coerente con la sua recente svolta catechistica, ma nel tradurre la dannazione in spettacolo famigliare addomestica il mito, lo catechizza e lo svuota, adattandone gli spigoli alle linee sfavillanti e pacchiane del suo cinema.

Jones avrebbe anche il phisique du rôle del maudit: corpo filiforme, pelle febbrile, capelli sudati come stigmate di una febbre interiore permanente. Ma è l’ago in un pagliaio. Attorno a lui, Zoë Bleu sdoppia il volto di Elisabeta/Mina con grazia intermittente - soprattutto nel registro elegiaco, meno nel fuoco tragico - mentre Matilda De Angelis (Maria) offre una zampata di presenza ironica e terrena che il film sfrutta solo a metà, preferendole l’ornamento alla funzione drammatica. Ewens Abid fa da Harker con un candore un po’ spaesato, sacrificato a una scrittura che lo tratta da pedina, la “vittima designata”. Christoph Waltz, infine, pare prigioniero eterno di Bastardi senza gloria: il suo prete-cacciavampiri è una frottola di eloquenza, eco tarantiniana più che incarnazione teologica; e quando il film gli mette in bocca il sigillo finale, “l’incantesimo è spezzato”, viene da sorridere: se c’è un sortilegio a restare integro qui è proprio ciò che lo riguarda come attore: la cantilena beffarda, il sopracciglio ironico, l’aria da predicatore sornione.

Sul piano tecnico, la fotografia di Colin Wandersman lucida le superfici fino a renderle inodore: una key light generosa, diffusa, che illumina tutto senza lasciare spazio all’ombra, cancellando la profondità drammatica e la tensione chiaroscurale tipica del gotico. È una luce “buona”, democratica, da spot pubblicitario o musical, che fa pendant con il set da fantasy family. Nonostante l’andamento temporale a zigzag, il montaggio di Lucas “Kub” Fabiani sceglie la linearità, gli stacchi puliti, appiattendo però la curva emotiva del film. La partitura di Danny Elfman pompa archi e ottoni in un grand guignol sinfonico che più spesso spiega invece di scavare. Gli effetti digitali, come detto, sigillano la disneyficazione del gotico, restituendoci un mondo over-rendered, scintillante e fasullo. In mezzo, il production design alterna invenzioni interessanti (la camera reliquiario), ad altre di un kitsch innocuo; costumi usciti da una sfilata gotico-chic, più Jean Paul Gaultier che ritessitura dell’antico. Risultato: un apparato spettacolare coerente con l’idea Grand Public, ma che depotenzia la tragedia e lascia Jones a lottare, quasi da solo, per far battere un cuore che la messa in scena tiene costantemente sotto anestesia.

Besson, d’altra parte, ha dichiarato d’essere meno interessato a Dracula che a lui: si vede. Se l’iconografia cita (con audacia temeraria) il look decrepito “del conte” di Gary Oldman, l’omaggio all’antecedente di Coppola configura la lesa maestà. Il film sembra un inventario, una teca di motivi presi in prestito - l’amore oltre il tempo, la bestemmia come ferita metafisica, la trascendenza che vince sull’inganno dei sensi - ma senza una bussola affettiva e intellettuale.

È un peccato, perché Besson possiede un’idea di cinema come illusione e sortilegio: il movimento che ipnotizza, l’inquadratura che seduce, il ritmo che azzanna. Da Subway a Nikita, fino a Léon, ha saputo coniugare grazia e brutalità, fiaba e detonazione, minimalismo emotivo e massimalismo visivo. In Dracula – L’amore perduto quel sortilegio si riduce però a espediente, “mezzucci”: il conte ipnotizza come Besson vorrebbe ipnotizzare lo spettatore, ma l’incantesimo non dura.

Scambia l’ “eterno ritorno” per l’“ennesimo ritorno”. E nel frattempo il panorama intorno si è mosso: Eggers, con il suo Nosferatu, ha mostrato che si può essere filologici e rinnovatori, gotici e contemporanei. Resta solo, in filigrana, l’idea di cinema come incantesimo condiviso, circonfuso di sensuale e sensibile (i suoi amuleti sono il carillon e il profumo, piccole malìe che dicono più della fede nel sensibile di quanto non facciano le presunte professioni di fedi nel soprasensibile). L’immagine di un Dracula “vivo e amante”, sì, ma pallidamente anemico, un revenant romantico che non morde più, che chiede a Dio (e al cinema?) una resurrezione impossibile.

Un’operazione coi parrucchini e il trucco: se ci si sintonizza sulla sua lunghezza d’onda, può perfino risultare divertente. Ma al cospetto del mito - e della sua terribile semplicità -il film resta un giro di giostra: luci belle, musica alta, cuore leggero. Usciti dal tendone, la notte, quella vera, ricomincia altrove.