Che cosa sia l’amore non sta a noi dirlo – semmai conoscessimo la risposta – ma Arnaud Desplechin può evitare il dilemma e interrogarsi su un’altra questione: come si mette in scena l’amore? I primi minuti di Deux pianos – presento in Grand Public alla XX Festa del Cinema di Roma – squadernano varie risposte.

C’è una coppia navigata, giovane e bella, che chiacchiera a letto immaginando storie fantasiose e scuse per non uscire: è il ménage del quotidiano, un lessico amoroso che non ha bisogno di scene madri e che si conferma naturalmente. Poi, in aereo, c’è un uomo che viaggia solo, con la musica in cuffia mentre studia uno spartito, e c’è un’hostess che si avvicina a lui per una formalità che, in fondo, sembra un timido approccio (d’altronde, nel corso del film, tutti i personaggi si premurano di ricordargli quanto sia bello): è l’occasione di un flirt che ci dà l’idea di quanto lui sia abituato a cedere alle lusinghe altrui, a consumare rapporti estemporanei.

E, infine, c’è l’incontro inaspettato tra la donna di quella coppia e l’uomo dell’aereo: lei, che aspetta di salire al quinto piano, apre la porta dell’ascensore e si ritrova lui; dopo qualche secondo di silenzio, lei scappa furente e lui sviene sbattendo la testa.

Deux pianos
Deux pianos

Deux pianos

(Emmanuelle Firman)

Nei film di Desplechin – che qui si fa esaltare dalla magnifica, contrastata, autunnale fotografia di Paul Guilhaume – avvengono queste cose: la gente può svenire o impazzire perché si ritrova di fronte all’amore perduto. Ed è sempre interessante che questo silenzio così fragoroso, una tempesta romantica che sconvolge un provvisorio ordine precario, in un cinema fieramente letterario, sempre così votato alla messinscena della parola.

La prima parte di Deux pianos è straordinaria proprio nella sua continua, appassionata battaglia – che, va da sé, è coreografia di un amore difficile – tra scrittura e azione, tra un protagonista che è quasi uno standard dell’artista talmente bloccato da non riuscire nemmeno a farsi maledetto e un personaggio femminile spiazzante e incontrollabile nelle sue scelte autonome e antiretoriche.

Da una parte, il pianista Mathias (l’ottimo François Civil con tutti i tormenti dovuti) che, dopo aver girato il mondo (leggi: dopo essere scappato per anni), torna a Lione per accompagnare la sua maestra in una serie di concerti; dall’altra, Claude (la sempre folgorante Nadia Tereszkiewicz), il suo grande amore di gioventù diventa moglie del suo migliore amico (Jeremy Lewin).

Ma c’è un momento, praticamente a metà film, in cui Deux pianos ribalta il tavolo, chiede una tregua, intavola una riconciliazione, pensa a quel che verrà dopo. È il momento in cui la mentore di Mathias, la grande pianista Elena (Charlotte Rampling, un monumento), si congeda dal suo allievo preferito (“Non mi mancherai, io ti mancherò”) con una lettera (“Sarà il tuo talismano”): primo piano di Rampling – quella Rampling, quel personaggio che sappiamo essere in una fase cruciale della vita – con lo sguardo dritto al pubblico e su uno sfondo scuro, quasi una quinta teatrale, che legge la lettera ad alta voce, a Mathias così come a noi.

Deux pianos
Deux pianos

Deux pianos

(Emmanuelle Firman)

È la dimostrazione di quanto Desplechin sia un autore che crede nell’azione data dalle parole e nei volti che trasudano informazioni e il suo film è anche un omaggio al volto di Rampling, ai suoi occhi ora feroci ora materni sul palco alla sua espressione catatonica sotto la doccia. Dopo questo snodo, Deux pianos diventa più rilassato, più sentimentale che melodrammatico, e soffre un po’ della costruzione allegorica del protagonista (la musica come chiave d’incomprensione, la tendenza alcolica da genio e sregolatezza, la problematicità del rapporto col materno reale e traslato, il sabotaggio come espiazione) messo alla prova al cospetto di una nuova possibilità di vita.

Ma Deux pianos è più interessante quando riflette su come mettere in scena l’amore, assente o ingombrante, consumato o logorante che sia, tra uno Chopin richiesto e un Bach imposto, tra androni irresistibili e alberghi per dirsi addio: “Lo sanno tutti che ci amiamo”.