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La Grazia - Toni Servillo 3 - foto © Andrea Pirrello.jpg
“Di chi sono i nostri giorni?”.
È come sempre un cinema di domande, il cinema di Paolo Sorrentino. Che questa volta, dopo È stata la mano di Dio e Parthenope (“A cosa stai pensando?”…) si porta dentro le stanze del Quirinale per raccontare il semestre bianco di Mariano De Santis (Toni Servillo), Presidente della Repubblica che sta per terminare il suo mandato.
Vedovo, cattolico, ha una figlia, Dorotea (Anna Ferzetti), giurista come lui. E proprio lei, oltre a rammentargli di non fumare ("hai un polmone solo, ricordi?") e a controllare la sua alimentazione ("Questa non è una cena, è un'ipotesi!", tuona l'amica di sempre Coco Valori, critica d'arte, interpretata da Milvia Marigliano), lo sprona a firmare il disegno di legge sull'eutanasia e a prendere una decisione su due delicate richieste di grazia, per un uomo e una donna, entrambi in carcere per avere ucciso i relativi compagni: il primo ha ucciso la moglie malata di Alzheimer, la seconda – vittima di continue violenze – ha inferto 18 coltellate al marito mentre dormiva.
La Grazia “è la bellezza del dubbio”, nonché un atteggiamento premuroso nei confronti della vita, degli affetti, delle questioni spinose, e ancora una volta Sorrentino si affida al suo attore feticcio, fraterno (settima collaborazione su undici film) per tratteggiare il crepuscolo di un uomo, immobile nei ricordi e bisognoso sempre di “un ulteriore periodo di riflessione”, che affida ad ogni tiro di sigaretta l'illusione di un'evasione eterna e al rap di Guè Pequeno la segreta ribellione di una ritualità soffocante.
Toni Servillo incarna con la consueta maestria questo Capo di Stato “verosimile ma rigorosamente inventato”, uomo soprannominato da tutti “cemento armato”, giurista autore di un manuale sul diritto penale (2046 pagine) ribattezzato dagli studenti di allora “Himalaya K3”, perché impossibile da scalare, uomo che quando prega si assopisce ma quando dorme non sogna più.
Roso dai dilemmi morali (“se non firmo la legge sarò considerato un torturatore, se la firmo un assassino”) e lacerato dall'assenza dell'amata moglie, insegue nel ricordo l'immagine di quell'Aurora fluttuante nella nebbia della brughiera, giovane donna amata per una vita intera. E ad assillarlo ancora, a 40 anni di distanza, è quel tradimento subito, tradimento a cui non è ancora riuscito ad associare né un volto né un nome. Ma questa costante e ossessiva ricerca della verità finisce solo per aumentare i dubbi.


La Grazia - foto © Andrea Pirrello.jpg
Sorrentino abbandona l’astrazione totale che, soprattutto nella prima parte, segnava la cifra di Parthenope, per gran parte del film predilige la claustrofobia di un’unità di luogo (il Quirinale) dove l’esistenza compressa e complessa di De Santis e la figlia (bravissima Anna Ferzetti) è contrappuntata da dialoghi e situazioni sempre in bilico tra profondità esistenziale e sagace ironia, da ritrovare nella già citata Coco Valori ma anche in alcuni dialoghi con il corazziere (Orlando Cinque) o il generale delle forze armate (Giuseppe Gaiani), per non parlare dei confronti con il Papa, interpretato dall’ivoriano Rufin Doh Zeyenouin, nero, con i dread, l’orecchino e scooter munito: “Dio non concede risposte, la nostra vita è fatta di domande, le risposte non le danno neanche la scienza e il diritto”.


La Grazia - Anna Ferzetti - foto © Andrea Pirrello.jpg
Non manca, come di consueto, il ricorso al simbolismo (il cavallo agonizzante) e quella sospensione in grado di creare lo stupore tra la parola e l’immagine, come l’incredibile capacità di restituire questo moto interiore di un uomo incastrato tra la sua natura (“cemento armato”, qualcuno ricorda come moriva Titta Di Girolamo alla fine di Le conseguenze dell’amore?...) e la voglia di smentire costantemente questa definizione che gli altri danno di lui: è provando a ricercare la verità da più vicino (“il diritto ce la mostra solamente da lontano”) che De Santis da una parte si svincola dalla ritualità del protocollo per rintracciare la sua vena di magistrato (la visita in carcere all’uomo reo confesso per l’uccisione della moglie malata), dall’altra insegue quel sogno di leggerezza (l’assenza di gravità, la lacrima galleggiante dell’astronauta in orbita da un anno) che magari è troppo tardi da trovare nella realtà. Basterebbe, chissà, ricominciare a sognare.


La Grazia - Toni Servillo 2 - foto © Andrea Pirrello.jpg
È nel disorientamento della coscienza, nell’impossibilità delle certezze, nelle sfumature che ci abitano, nel dramma e nell’ironia, ma soprattutto nell’amore – per una moglie defunta, per la figlia, per i valori fondamentali della vita – che La Grazia trova la sua indiscutibile alchimia tra la sobrietà e lo svolazzo (Servillo che canta con gli alpini e poi, da solo, Le bimbe piangono di Guè, “Affacciati alla finestra spacciatore mio”…).
Oltre ad un ribaltamento potentissimo (la telefonata alla direttrice di Vogue) e struggente, anticipato da quella camminata liberatoria a Via dei Condotti (“Sono 7 anni che non faccio una passeggiata”), quante affinità con le fughe all’alba del Divo Andreotti in Via del Corso: è lì, da solo, in quella casa, che De Santis ritrova i colori della sua ragazza (“Sarebbe piaciuto anche a me fare come quegli uomini capaci di indossare una giacca rossa sui pantaloni bianchi, ma non ne ho mai avuto il coraggio”, ogni riferimento a Jep Gambardella è puramente casuale?), il contraltare pastello della sua figura di “uomo grigio” che ora, contrariamente alle premesse, sembra disposto a smontare i suoi pregiudizi, ad imparare a conoscere il presente, anche e soprattutto attraverso gli occhi della figlia. A prendere delle decisioni. Ma senza dimenticare l’importanza del dubbio, della responsabilità, dell’etica, perché come ricorda lo stesso Sorrentino, “L’etica è una cosa seria. Tiene in piedi il mondo. E Mariano De Santis è un uomo serio”.
E se quella domanda apparentemente semplice – “Di chi sono i nostri giorni?” – prevede una risposta pressoché scontata (“Sono nostri”), è pur sempre con il muro della vita che bisogna fare i conti. Di Grazia.