Il violento acquazzone che si è abbattuto sui commensali del Premio Solinas, infradiciati e smarriti intorno a un banchetto ammollato nella pioggia, è sembrato ai più un segno inequivocabile: la tre giorni di convegno dal titolo Scrivere nella bufera aveva trovato il suo degno epilogo.
Ma se i rovesci atmosferici sono comunque preludio di una schiarita, la tempesta che da anni scuote il cinema italiano non lascia ancora intravedere un ritorno del sereno.
Grande è la confusione sotto il cielo tra indirizzi ministeriali e ambizioni industriali, velleità autoriali e pratiche di mercato, tra cinema e serialità, soggetti e sceneggiature, tra storie, temi e immaginari.

Nel suo quarantennale - diretto con coraggio e tenacia da Annamaria Granatello - il Premio Solinas ha avuto il merito di mettere a fuoco questa confusione. Una fotografia, se non complessa, almeno complessiva. E da qui, forse, conviene ripartire.
La manifestazione ha reso omaggio ai suoi “figli illustri”, Paolo Sorrentino e Antonio Capuano, riproponendo L’uomo in più e Vito e gli altri, titoli che da finalisti al Solinas inaugurarono percorsi poi cruciali.
Soprattutto, ha chiamato al confronto - franco, talvolta aspro, senza troppe prudenze diplomatiche - nuove leve e veterani della scrittura, produttori, addetti ai lavori, giornalisti e critici.

I primi a parlare sono stati i finalisti. E non hanno usato perifrasi: compensi inadeguati, precarietà esistenziale, porte chiuse, attese infinite. Un “mismatch” ormai evidente tra l’enorme offerta di lavoro intellettuale e la domanda reale del settore, che genera aspettative e poi frustrazione. “Fateci lavorare!”, ha sintetizzato Hamatou Compaoré, vincitrice lo scorso anno della Bottega delle Sceneggiatura (l'iniziativa promossa da Premio Solinas e Netflix) insieme a Miranda Angeli che ha citato Everything Everywhere All at Once - “Quando nulla ha più senso, tutto è possibile” - per rivendicare il diritto all’immaginazione e per chiedere conto del perché tante storie “non funzionerebbero” in Italia.
Sullo sfondo, il tema della diversità e dell’inclusione: la necessità di raccontare personaggi e non bandiere, evitando stereotipi, vittimismi e sguardi compiacenti.
La “vecchia guardia” non si è sottratta. Monica Zapelli (I cento passi), Filippo Gravino (Una vita tranquilla) e Re Salvador (Non mi uccidere) hanno ricordato che l’accesso è sempre stato competitivo. Forse quello che oggi manca è uno spazio di trasmissione delle competenze: botteghe, prossimità, tutoraggio, condivisione di percorsi. Una pratica che un tempo teneva insieme sceneggiatori, registi e produttori e che oggi si è allentata fino a sfilacciarsi.

Il nodo strutturale, però, sta anche altrove. Riccardo Tozzi ha ricordato come negli ultimi dieci anni siano cresciuti i contributi pubblici (fino a coprire, in Italia, quote molto rilevanti del costo di un film) mentre si sono ridotti gli investimenti privati. In parallelo, i pubblici del cinema italiano sono calati e il settore rischia una dipendenza ancor più forte dai governi. Il biennio di lockdown e ascesa delle piattaforme ha accelerato una trasformazione: platee più sofisticate, un’offerta domestica sovrabbondante e l’abitudine ad andare in sala solo davanti a un “evento”.
Fenomeni come Perfect Days e Past Lives, capaci di superare la performance di molte commedie nazionali, dimostrano però che profondità e originalità sanno ancora riportare la gente al cinema. La conclusione è tagliente: “Non è il pubblico a non essere all’altezza dei nostri film; sono i nostri film a non essere all’altezza del nostro pubblico. La gara si vince al primo passo: selezione dura sui soggetti. Non tutto ciò che si può fare, va fatto”.

Sul rapporto con il presente, Filippo Gravino ha aggiunto che la serialità ha intercettato più agilmente temi e sensibilità dell’oggi (dagli 883 ad Avetrana), mentre parte del cinema sembra rifugiarsi in costumi, epoche, surrealtà. Non si tratta di rincorrere la cronaca, ma di “afferrare i vertici e le vertigini dell’oggi”: come fa Forza maggiore di Östlund nel mettere a nudo la perdita di ruolo del maschile. Qui sta uno dei varchi possibili: ritrovare presa sul contemporaneo rilanciando però la mediazione simbolica del cinema.

Ed è proprio la parola immaginario - la meno pronunciata nei panel - a indicare il buco nero. Senza immaginario non c’è linguaggio condiviso, e senza linguaggio condiviso non c’è comunicazione né riconoscimento. Servono storie che non siano espansione dei “temi”, ma che lavorino su universali, archetipi e simboli, capaci - attraverso il dispositivo visivo, verbale e sonoro - di radicarsi in un immaginario collettivo (o collettivi, considerata la frammentazione dei pubblici).
Qui non basta invocare l’Autore (nel suo paradigma più ombelicale): occorrono codici e generi praticati con competenza, sceneggiature che sappiano onorare i soggetti, e soggetti pensati già come sceneggiature. Soprattutto, standard professionali non negoziabili su tutta la filiera: la responsabilità non è solo degli sceneggiatori, ma condivisa con regia, produzione, casting, recitazione, montaggio, promozione.

Se l’universalità è la pretesa dell’affabulazione mitica, creare pubblico laddove non esiste è prerogativa dell’arte.
Oggi il nostro cinema e la nostra serialità oscillano tra questi poli senza abbracciarne davvero nessuno. Con eccezioni eccellenti certo, che però faticano a fare scuola. I numeri al botteghino da un lato e la difficoltà a imporsi nei grandi festival e premi internazionali dall’altro, lo dimostrano.

Ma quel che il Solinas ha certificato è anche il ritorno del conflitto: sociale, culturale, generazionale. Non va rimosso né addomesticato. Va canalizzato in pratiche professionali, in forme nuove, in narrazioni includenti nel senso, non di facciata. Tornare a una logica di bottega (prossimità, confronto quotidiano, rischi condivisi) potrebbe rivelarsi il vero “correttivo di sistema”. Perché non bastano storie che “colpiscano al cuore”: servono storie che rapiscano lo sguardo e rimangano abbarbicate nella memoria. Scrivere nella bufera significa accettare questa prova e trasformarla in metodo. Ciò che resta, altrimenti, è solo maltempo.