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Confiteor - Come scoprii che non avrei fatto la rivoluzione
Secondo i libri liturgici per la Messa tridentina, il Confiteor è una preghiera penitenziale da recitare all’inizio della messa, nell’ora di compieta e all'inizio dei sacramenti dell’unzione degli infermi e della penitenza. Dopo ognuna delle due volte lo segue una preghiera, il Misereatur, poi il sacerdote dà l’assoluzione dai peccati veniali con l’Indulgentiam. Al di fuori della messa può sostituire o seguire l’esame di coscienza previsto nella compieta.
È un’indicazione essenziale per capire le ragioni e i sentimenti, i furori e i dolori di, appunto, Confiteor, il quarto lungometraggio in undici anni di Bonifacio Angius (gli altri sono tutti da recuperare: Perfidia, Ovunque proteggimi, I giganti), cane sciolto sardo che, non pago di un titolo tanto severo quanto preciso, aggiunge un sottotitolo che è anche una parafrasi: Come scoprii che non avrei fatto la rivoluzione (presentato alle Notti Veneziani delle Giornate degli Autori a Venezia 2025).
Più che una preghiera o una richiesta d’assoluzione nel crinale tra la vita che resta e la morte sedotta, Confiteor è un intervento a cuore aperto, un flusso che conferma la qualità letteraria di Angius, autore che mette sempre in campo se stesso per interrogare i confini tra realtà e finzione, la riflessione sulla necessità per un artista di non assecondare le aspettative altrui e ciò che le immagini nascondono in piena vista.


Confiteor - Come scoprii che non avrei fatto la rivoluzione
L’incipit è una variante di Céline nell’oscurità che tutto fagocita, l’annuncio di un altro viaggio al termine della notte: un dialogo con se stesso, “la storia di un’eterna infanzia da cui tutto prende forma e significato”, una raffica di domande senza risposta in attesa che tutto finisca al crocevia del nulla. “Perché tutto è cambiato e noi non ce ne siamo accorti?” si chiede mentre il tempo passa e affiora la consapevolezza che sarebbe bastato pochissimo per fare del bene senza limitarsi a immaginarlo.
È l’impronta di un cinema che si mette a nudo, consapevole che “vivere non è solo svegliarsi al mattino” perché “vivere è difficile”, disposto a rivelare fragilità e scompensi proprio per la sua natura feroce e fluttuante. Un regista (Angius stesso) è allettato in ospedale, sta più di qua che di là, non riconosce la sorella, vaneggia eppure deve fare assolutamente un film sulla sua vita e quindi assegna al figlio (quello vero di Angius, Antonio) il ruolo di se stesso bambino.


Confiteor - Come scoprii che non avrei fatto la rivoluzione
Facile trovare assonanze e corrispondenze con la madre di tutte le autoanalisi cinematografiche (8 ½), più ardito ma intrigante immaginare qualche incrocio con All That Jazz, non solo per la tensione autodistruttiva e la vocazione scellerata dell’artista ma anche per quanto sa rivelarsi disturbante e malinconico, ferito a morte nel suo fluttuare in un tempo sospeso. Anzi: All That Rap, perché c’è pure quello.
Un film di fantasmi, dove l’infanzia si reincarna nei corpi degli attori e delle attrici più in vista (gli zii Edoardo Pesce e Geppi Cucciari, ma soprattutto Giuliana De Sio, figura ectoplasmatica e carnale che ci ricorda ancora una volta quanto sia sottoutilizzata da un cinema italiano pigro se non ignavo), dove tutto sembra precipitare e frantumarsi, che prende di petto le occasioni mancate e le illusioni perdute, il passato che non passa e il presente che non lascia scampo, le donne amate male e i figli ai quali lasciare qualcosa. “Ci vuole sempre amore per raccontare una storia e per raccontarla meglio lo devi aver perduto, l’amore, intendo”: una sintesi che apre una botola.