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Film di Stato (2025)
In una Mostra di Venezia dove la “questione dell’archivio”, e soprattutto la ridefinizione in atto del concetto stesso di footage, è stata al centro del discorso tanto da finire nel palmares con le registrazioni reali delle conversazioni telefoniche utilizzate da Kaouther Ben Hania per il suo The Voice of Hind Rajab, anche Roland Sejko continua il proprio percorso all’interno del repertorio storico della sua terra, l’Albania.


Film di Stato (2025)
Lo fa, come dicevamo, in un programma di festival dove è possibile trovare due “maestri” di questo tipo di pratica, come l’Alexander Sokurov di Director’s Diary, e lo Yervant Gianikian de I diari di Angela – Noi due cineasti. Capitolo terzo (aggiungiamo, nella direzione della problematizzazione di cui sopra, il terminale Remake di Ross McElwee). Al cospetto di queste visioni, avvenute in altre sezioni (Film di Stato era all’interno delle Notti Veneziane delle Giornate degli Autori), Sejko dimostra con il suo nuovo lavoro la sua inequivocabile maturazione autoriale; dal “documento” di Anija, la nave (2012) a questo ultimo exploit passa un evidente tragitto di stratificazione della riflessione sull’archivio, che ha uno snodo centrale nel precedente La macchina delle immagini di Alfredo C.


Film di Stato (2025)
Stavolta, Sejko affronta la più ambiziosa delle sue imprese, raccontare quarant’anni di regime comunista albanese, a partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, attraverso archivi di propaganda, immagini di “potere” che si incentrano attorno ad un’unica figura, quella di Enver Hoxha, il generale del Partito del Lavoro che ha governato l’Albania dal 1944 fino alla propria morte. Operazioni di questo tipo, che dissezionano l’immagine ufficiale di un capo di governo attraverso le riprese istituzionali che la sua carica di comando “genera”, non sono inedite, anche solo restando ai due “pesi massimi” che citavamo prima, e anche in questo caso ci troviamo di fronte ad un montaggio serrato che fa parlare unicamente questa grande mole di immagini che testimoniano parate, cerimonie, balli e spettacoli teatrali di propaganda, reportage di visite degli emissari cinesi, e poi gare sportive, battute di caccia, la quotidianità solitaria di Hoxha che fa un bagno, o una passeggiata nei boschi. Piano piano, alla festosità programmatica di questi momenti si sostituisce l’ombra della repressione, della violenza epurativa di partito, i discorsi dal pulpito si fanno più minacciosi, assistiamo ad espulsioni orwelliane addirittura di esponenti già morti: è il motivo per cui Film di Stato è stato da molti associato alle disamine delle menzogne dei dispositivi di regime firmate da Sergei Loznitsa.


Film di Stato (2025)
In realtà, nel suo alternarsi di repertorio in bianco e nero e a colori, Film di Stato sembra meno interessato ad un certo rigore autoriale (i giochi col sonoro “ricostruito”, ad esempio, sono forse a volte particolarmente invasivi) quanto a far scintillare cortocircuiti di senso all’interno dell’affastellarsi del footage, gli applausi delle folle oceaniche in loop che si ripetono di evento in evento, abissali, sempre con la stessa cadenza e quasi lo stesso suono, quasi fossero stati copincollati nella Storia a certificare un consenso che non può che ribadirsi unanime, meccanizzato, disumanizzato nella massa.