A Mont’e Prama, nel 1974, furono ritrovate alcune statue risalenti alla Civiltà nuragica, ridotte in frammenti, nei pressi di una vasta necropoli. Guerrieri, probabilmente aristocratici, in virtù dell’altezza tra i due e i due metri e mezzo, sono chiamati i Giganti. Ci sono loro all’origine del film di Bonifacio Angius, o meglio quel che ne resta oggi: pezzi di corpi trasfigurati nella loro rappresentazione frammentazione, frantumi di una civiltà primordiale, un tempo mitico che fa ombra a un presente devastato.

I giganti nasce alla luce cupa della reclusione forzata, una rimpatriata nera come quella di Damiano Damiani e una segregazione volontaria nel ricordo di Marco Ferreri. Viaggio al termine della notte, rischiarato solo occasionalmente da una luce diurna che sembra schiantarsi sui volti per poi fuggire un attimo dopo perché inutile se non dannosa.

Sembra non esserci spazio per la speranza in questo film che vive dell’urgenza di raccontare un tempo furente e cinico, abitato con disagio da anime di ceramica che bruciano la possibilità della fiducia in quel che potrebbe accadere domani.

Sono cinque, i giganti che crollano di fronte al naufragio colossale della vita, chiusi in una casa sperduta in una valle dimenticata dal mondo con l’obiettivo di calarsi nell’abisso della coscienza, nell’annullamento del dolore, nel rifiuto dell’ineludibile necessità del ricordo.

I giganti

Il giradischi annuncia il carosello macabro, la danza funebre si intreccia con le epifanie di sguardi che ci hanno attratto, dunque convinto, infine rovinato per l’incapacità di agire al di là della fine nota. Cinque disperati allo sfacelo, in lenta decomposizione accelerata da un tenebroso orizzonte degli eventi, avvolti dalla polvere che non può coprire il lascito del passato né la promessa del futuro.

È un cinema ferito a morte, feroce e inesorabilmente malinconico, quello del sardo Angius (anche sceneggiatore, produttore, attore, direttore della fotografia, montatore, collaboratore alla colonna sonora), che costeggia il nichilismo guardando nel baratro delle illusioni perdute, delle occasioni mancate, della solitudine. Fluttua e lacera, I giganti, che sa farsi universale partendo dal particolare, allegorico nella misura in cui scandaglia un universo peculiare, affrontare di petto il dolore senza compiacersene.

“Più che una storia è una novella, un poemetto” dice uno dei personaggi in un momento autoriflessivo, che magari dice troppo, forse indica più del dovuto, e però mette in chiaro cosa è e cosa non è, dove vuole andare e dove non vuole andare. Una corale dalla fine, dove le voci si uniscono in un film straordinario, un dramma da camera che accoglie la complessità del mondo fuori. Grande cinema.