In Sirât si evoca a un certo punto la fine del mondo: “Se ne parla da anni. E se fosse questa?” si domanda uno dei raver protagonisti, inoltrandosi nel cuore del deserto marocchino. Fino alla fine del mondo. Come nell’omonimo on the road di Wim Wenders, tornato di recente in sala nel suo director’s cut di oltre quattro ore. Anche lì un deserto, l’outback australiano. Ma se Wenders scopriva alla fine del mondo non epifanie ma reiterazione di immagini, la dipendenza dal visivo come patologia dell’Occidente, Óliver Laxe trova nel suo capolavoro una vera apocalisse (intesa letteralmente come rivelazione) che alla dipendenza dalle immagini “stanche, già morte” oppone la liberazione attraverso il suono. Ecco la techno, il rave, il deserto. Perché, se chi canta prega due volte, come recita l’adagio agostiniano, chi balla, che fa?

Sergi Lopez con Bruno Núñez Arjona in Sirat
Sergi Lopez con Bruno Núñez Arjona in Sirat

Sergi Lopez con Bruno Núñez Arjona in Sirat

La camera di Laxe si dimena in mezzo a corpi in trance, percossi da mani invisibili che roteano nell’aria tra il qui e l’altrove, in un brandello di trascendenza scritto, anzi, avvertito nei beat e nelle voci lontanissime che mulinano nella polvere e dalla potenza di vecchi ancestrali subwoofer. Il film come pratica di ascolto, esperienza di passaggio, rito sciamanico. La musica, Kangding Ray, potrebbe averla rubata al Cielo. A Roma Laxe e Sergi López hanno presentato Sirât, in arrivo nelle sale (dall’8 gennaio) con MUBI. E anche nella capitale del rumore è un capolavoro che risuona. Se il cinema contemporaneo si affanna a spiegare, chiarire, Laxe predica l’opposto: non “raccontare”, vivere. Pardon, morire. “Io volevo che lo spettatore morisse vedendo il film”, dice il regista galiziano, in un italiano stentato, mischiato allo spagnolo, mutilato come i suoi personaggi, quasi una lingua di confine, in un lavoro che di soglie ne incontra tante e le attraversa tutte.

Nel titolo la chiave: “Sirāt” significa “sentiero”, “via”: una strada a due dimensioni, fisica e metafisica; e, nella tradizione islamica, è anche il ponte che unisce inferno e paradiso. Un passaggio sottile sottile che non ammette distrazioni, concede al massimo sottomissioni (Islam). È la traiettoria che compiono i personaggi: Luis (López), e suo figlio Esteban, che arrivano a un rave tra le montagne del sud del Marocco cercando Mar, figlia e sorella scomparsa mesi prima; fanno vedere la sua foto, credono nel potere delle immagini che però si riveleranno falsi idoli di un potere che non hanno mai avuto, non abbiamo mai avuto. La speranza si affida a un gruppo di raver in viaggio verso “un’ultima festa nel deserto”, una riappropriazione sufi del mito della wilderness e dei limiti che ci costringe a scoprire?

Sirat (2025)
Sirat (2025)

Sirat (2025)

In Sirât tutto quel che si chiede è un atto di fede. A incominciare dai produttori “che si sono fidati di una sceneggiatura” molto sui generis, “evocativa”. L’affidarsi a come ripensamento del sottomettersi al Signore del mondo. “Quando Dio ti vuole bene ti fa male”, ricorda Laxe. Ed ecco lo scandalo di un film che non teme di gettarsi nel campo minato del Sacro, “un film da kamikaze dove ciascuno di noi si è spinto fino ai propri limiti”. Laxe lo dice senza giri: la sua è una “cerimonia” dove la morte - quella reale, quella simbolica, quella che la nostra società espelle - torna a essere un portale. Ecco che dalla pedagogia dell’ascolto scaturisce una terapia del vedere. Del resto, le immagini sono cose delicate perchè “curano l’immaginario”.

Laxe racconta il suo desiderio di portare il cinema “dove sta la musica”: “la musica riesce a sospendere il livello di percezione razionale”, e lui cerca immagini che possano fare la stessa cosa, lasciarsi scavalcare, quando serve, da quella forza invisibile.

OliverLaxe e Kangding Ray @tamaradelafuente
OliverLaxe e Kangding Ray @tamaradelafuente

OliverLaxe e Kangding Ray @tamaradelafuente

Le immagini “bruciano” e possono ferire come un lampo, ma “il suono nasce dentro lo spettatore”, vibra con particelle già presenti nel corpo, si accende come una memoria fisica. Abbia una radio irata invisibile. Il cinema del galiziano non seduce l’occhio, preferisce sfidarlo, metterlo in crisi. Gli toglie la foglia di fico della distanza, lo espone e lo consegna al ritmo, alla trance.

Sergi López è l’unico attore professionista in un manipolo di persone reali. Un attore, spiega Laxe, capace di costruire una “maschera” e di distruggerla. López racconta un’esperienza di spoliazione, la scoperta grazie a questo film “che sempre si comincia da zero”. Ammette di essere stato “forzato a entrare in trance”, di aver lasciato che il corpo trovasse risposte che la testa non possedeva. 

È il rischio di un cinema “non facile”, che ha scommesso molto sullo spettatore e la sua sensibilità. Vincendo: 600 mila spettatori in Spagna, 700 mila in Francia; Gran Premio della Giuria a Cannes, candidature ai maggiori premi internazionali, dal Golden Globe agli Oscar.
Non vincerà, probabilmente. Ma è destinato a restare.