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Sirat di Óliver Laxe
C’è un momento, in Sirāt, in cui il suono smette di accompagnare e comincia a guidare. Non più colonna sonora, ma colonna vertebrale. Il film pulsa. Respira. Si fa carne e vibrazione. E allora capisci che quello che stai guardando non è un film. È una danza. È un rito. È un richiamo.
Laxe – il visionario pellegrino del cinema europeo, cresciuto nel vento di Galizia e poi rigenerato tra dune, piste sabbiose, zikir e polvere – ha fatto il suo film più grande. E anche il più intimo. Sirāt, prodotto dai fratelli Almodóvar, è un attraversamento. Il titolo lo dice, senza sconti: il sirāt al-mustaqīm è il ponte finale, quello che ogni anima deve percorrere alla fine dei giorni. Più sottile di un capello, più affilato di una spada. Si passa o si precipita. Ma qui, in questo deserto che non è un luogo ma uno stato, il ponte non è dopo la vita: è la vita stessa.
Il racconto? Un padre cerca la figlia. Ma ogni parola è troppo. Ogni frase è già troppo tardi. Perché Sirāt non si racconta. Si ascolta come un canto lontano. Si subisce come una febbre. Si vive come un sogno – o un incubo – che ha scelto un ritmo preciso per mostrarsi: quello della techno, del respiro affannato, del fuoco che divampa. Il film comincia come un road movie e finisce come un’apocalisse mistica. Ma già dopo pochi minuti siamo altrove. Il confine tra cinema e sogno è già saltato. Siamo dentro un battito continuo, una percussione che evoca, che smuove, che guida.
Sergi López – volto che ci ricorda che siamo ancora nel mondo – è l’ultima ancora che ci lega al reale. Ma poi si dissolve anche lui, come tutti. Come tutto. I personaggi si smaterializzano nel paesaggio, si fanno polvere, eco, traccia. La narrazione si sfibra. L’immagine non spiega, non mostra. Chiama. Come un muezzin interiore.
Laxe, convertito all’Islam e devoto alla sapienza sufi, non mette in scena la religione. La compone, la incarna. Sirāt è un film mistico, ma non parla del divino. Lo fa vibrare, come un tamburo. La musica – techno, rave, industriale, firmata Kangding Ray – si mescola ai canti spirituali come in un dhikr impazzito. Come nelle cerimonie dei dervisci rotanti, non c’è più distinzione tra il ritmo e il corpo. Tutto gira. Tutto sale. Tutto brucia.
Ecco il miracolo: il rave, in Laxe, è il nuovo zikir. La trance psichedelica è una preghiera. L’abbandono dei sensi è l’unico modo per riacquisirli. In questo, Sirāt è un film sufi senza mai citarlo. Ma la struttura è quella del viaggio iniziatico, dell’estinzione dell’io (fanā’) per fondersi con il tutto. È l’estasi come metodo di conoscenza. Come insegnava Ibn ‘Arabi, «il vero viaggio non è cercare nuovi paesaggi, ma nuovi occhi». E questo film ci costringe a cambiare pupilla, pelle, battito.
Si pensa a Tarkovskij, certo, ma anche a Gaspar Noé, a Jodorowsky, al primo Herzog lisergico. E forse ancora di più a Maya Deren, la sacerdotessa della trance cinematografica. Laxe è vicino a loro non per estetica, ma per fede. Una fede nella potenza scatenante dell’immagine, nel potere esoterico della forma.
E se l’immagine è il corpo del film, il suono è la sua anima. La techno qui non è colonna sonora modaiola, ma metodo spirituale. Come nel trancecore degli Infected Mushroom o nelle composizioni sacro-industriali di Arvo Pärt remixato da un dio minore della notte, la musica non è decorativa, ma operativa. Ci lavora dentro. Ci trasforma. È il battito cardiaco del divino che non si vede, ma si sente.
A un’ora e ventisei, tutto esplode. Letteralmente. Ma non è uno spettacolo. È una rivelazione. Come il big bang dell’anima. Una deflagrazione sensoriale e mistica. Il tempo si ferma. Lo spazio si liquefa. E ci ritroviamo sospesi su quella linea sottile tra luce e buio, tra il Paradiso e l’inferno, che è il Sirāt. E capiamo che il deserto, con la sua nudità, è solo un modo per vedere di più. Come il buio nei mistici medievali. Come il silenzio dei monaci. Come la trance dei visionari.
Laxe ha girato Sirāt come un rabdomante in cerca d’acqua sacra. E l’ha trovata. Nel vuoto, nella vertigine, nel rumore. Il suo cinema non è fatto per piacere. È fatto per mutare. Per bruciare e lasciare segni. Non linee, non trame. Cicatrici.
Chi ama il cinema addomesticato, la trama ben scritta, la catarsi garantita, fugga. Ma chi è pronto a perdere la vista per vederci davvero, chi cerca il sacro in un battito di subwoofer, chi crede che Dio possa manifestarsi anche in un rave sul bordo dell’abisso… Sirāt lo aspetta.
Come il ponte. Come la fiamma. Come una voce che chiama da lontano — e che forse è la nostra.