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Robert De Niro in Indiziato di reato
Toro scatenato; Taxi Driver; Il padrino – Parte II; C’era una volta in America; Mean Streets – Domenica in chiesa, lunedì all’inferno; Re per una notte; Il cacciatore; Quei bravi ragazzi; Casinò; The Irishman. Non si scappa: compilare una top ten delle migliori interpretazioni di Robert De Niro è semplice, forse troppo semplice, non fosse altro perché è difficile non citare dieci ruoli entrati così definitivamente nella storia del cinema.
È un attore senza paragoni, De Niro, iconico davvero in un’epoca in cui sono tutti iconici, un trasformista imprevedibile, talmente grande e potente da concederci la possibilità di una top ten alternativa – e ad avercene, di tali top ten alternative – zeppa di ruoli memorabili, sempre in bilico tra sottrazione e follia: il padrone di Novecento; il metodico criminale di Heat – La sfida; Al Capone in The Untouchables – Gli intoccabili; lo schiavista di Mission; l’ex poliziotto diventato cacciatore di taglie in Prima di mezzanotte; il sadico galeotto di Cape Fear – Il promontorio della paura; il terrorista di Brazil; l’ingegnere romantico di Innamorarsi; il mercenario di Ronin; il mefistofelico suprematista di Killers of the Flower Moon.
E rilanciamo, tra gustosi manierismi e clamorose rentrée: il diavolo di Angel Heart – Ascensore per l’inferno, il suocero-spia del franchise Ti presento i miei, Frankenstein, il malato di Risvegli, il boss in analisi di Terapie e pallottole, il produttore di Disastro a Hollywood, il padre ossessivo-compulsivo in Il lato positivo e quello di Bronx, il fondatore della CIA in The Good Shepherd – L’ombra del potere, l’anchorman di Joker. Capite quante possibili top ten oltre quella canonica?
Quella di De Niro è una carriera fuori dall’ordinario e perfino schizofrenica, divisa tra una prima parte – diciamo fino alla fine degli anni Novanta – di ruoli accuratamente selezionati e così rivoluzionari (la mitologia del metodo appreso all’Actor’s Studio) da incastonarsi nell’immaginario e una seconda – dall’inizio del terzo millennio – bulimica, scatenata, perfino masochista. Oggi che il 78° Festival di Cannes lo celebra con una Palma d’Onore, proviamo a esplorare nei meandri di una filmografia inesauribile, costruendo un una top ten più bizzarra che ci restituisca la complessità e l’inafferrabilità di un genio del cinema.


Ciao America
(Brian De Palma, 1968)
Il primo grande ruolo arriva a venticinque anni è più potente oggi di allora: oltre la satira underground e la professione antimilitarista, l’inaugurazione di una galleria di americani non integrati che sovvertono il sistema per superare la menzogna delle istituzioni e squarciare la cartolina dei benpensanti. Ormai veterano del Vietnam, il personaggio si radicalizza nel successivo Hi, Mom!.
Batte il tamburo lentamente
(John D. Hancock, 1973)
Un attimo prima del trionfo con Coppola e Scorsese, sostituisce Al Pacino e e si dimostra già un maestro dell’empatia trasformandosi in un mediocre giocatore di baseball che scopre di essere affetto dal linfoma di Hodgkin. Tragico senza ricorrere alla retorica, misurato perché ostile all’overacting, capace di dire tutto attraverso pochi e precisi elementi (il tabacco masticato, i capelli grassi, il lessico genuino da ragazzo di campagna).
Gli ultimi fuochi
(Elia Kazan, 1976)
Alcolico, decadente e romantico avatar di Irving Thalberg, il corpo più rappresentativo della New Hollywood lascia il set di Goodbye amore mio! e incontra il maestro al canto del cigno: ne esce fuori una summa sul cinema come macchina e ossessione, una seduta spiritica e una cerimonia degli addii, un passaggio di consegne e una lezione per il futuro (la celebre sequenza su come si scrive una scena e, di riflesso, su come la si interpreta).
New York, New York
(Martin Scorsese, 1977)
Non è il pezzo più ricordato di un sodalizio che ha segnato la storia del cinema, ma è impossibile resistere a questo musical tormentato e spericolato, un mélo sulle occasioni mancate e una specie di crito-film che riflette sui generi hollywoodiani. Con un memorabile duetto-scontro tra Liza Minnelli e De Niro, sassofonista fragile ed esplosivo. Mal recepito all’epoca, oggi francamente entusiasmante.
L’assoluzione
(Ulu Grosbard, 1981)
Prima delle due collaborazioni con un regista meno considerato di quanto si dovrebbe, è una cupa storia crime dove il nostro si cala nella tonaca di un ambizioso arcivescovo di origini irlandesi che forse ha perso la vocazione e si preoccupa più delle cose materiali che delle questioni spirituali. Morale e non moralista, un apologo sul dubbio e sulla fede che trova referenza nel torpore inquieto di una performance da manuale.


Robert De Niro in L'assoluzione
Jacknife – Jack il coltello
(David Hugh Jones, 1989)
Veterano affetto da stress post-traumatico, reduce (di guerra e non solo) ineluttabilmente ai margini di una società, mina vagante che si insinua in una famiglia a pezzi. Un inevitabile approdo per l’attore che meglio di tutti ha incarnato le ferite irreversibili della generazione mandata al massacro in Vietnam. E una prova piuttosto sottovalutata perché sospesa tra senso di minaccia e voglia di tenerezza.
Indiziato di reato – Guilty by Suspicion
(Irwin Winkler, 1991)
In apparenza, un’interpretazione di routine in un period drama scolastico. In profondità, un saggio di recitazione che dimostra come un gigante tendente al gigionismo possa mettersi al servizio di una vicenda più importante che ricorda la stagione nera del Maccartismo, delle liste nere e delle purghe anticomuniste. In un ruolo ricalcato sul regista John Berry, il divo si conferma un monumento alla vulnerabilità.
Amanti, primedonne
Barry Primus (1992)
Due o tre pose in un film che non è passato alla storia: perché inserirlo? Perché fu proprio De Niro a coprodurre l’opera prima di un caratterista già sul set di New York, New York, una commedia acidella che racconta i retroscena di Hollywood (che peraltro ebbe la sfortuna di capitare nell’anno de I protagonisti di Altman). E, ironicamente, si ritaglia il ruolo del cinico produttore con amica da piazzare: dentro e contro il sistema.
Flawless – Senza difetti
Joel Schumacher (1998)
Ennesima professione d’intelligenza: capire di trovarsi accanto a un altro fenomeno, l’allora giovane e già incredibile Philip Seymour Hoffman nella parte di una drag queen in attesa di riassegnazione di genere, e agire di sponda senza mettersi da parte. Nel ruolo di un poliziotto che deve reimparare a parlare dopo un ictus, De Niro è molto attento nell’evitare la macchietta sia sul piano fisico (il lavoro sulla voce) che ideologico (riconoscersi tra marginali).
The Alto Knights – I due volti del crimine
(Barry Levinson, 2024)
Nella marea di partecipazioni talvolta imbarazzanti, una delle rare occasioni per godere del supremo gigionismo. Quinta volta con un regista che ne ha esaltato il lato brillante (Sesso & potere), un mafia movie d’altri tempi in cui l’attore che ha cambiato per sempre la rappresentazione dei criminali si diverte nel doppio ruolo di Frank Costello e Vito Genovese. E, forse, ci dice che per l’unico buddy movie possibile è con se stesso.