Sempre elegante, composto. Fa trasparire un grande autocontrollo, ogni parola è misurata, e la sua voce profonda riempie la stanza. Jeffrey Wright è uno degli attori più interessanti degli ultimi anni. Spesso purtroppo è una spalla, ma sempre determinante. Lo abbiamo incontrato a Cannes per La trama fenicia di Wes Anderson, in concorso sulla Croisette.

Il film si concentra su uno spregiudicato tycoon che deve salvare il suo impero. E in uno dei brani costruiti da Wes Anderson c’è proprio Wright, che si rivela un prezioso alleato per il protagonista interpretato da Benicio del Toro. “Ciò che mi colpisce di Wes Anderson è che ha sempre un piede verso il futuro. Mentre gira, sta già scrivendo la sceneggiatura del prossimo film. Abbiamo avuto dei ritardi per gli scioperi, però poi è stato rapido: sono servite solo nove settimane di riprese. C’è un’attenzione per i dettagli che è maniacale, ogni inquadratura è un dipinto”, spiega Wright.

Lei è a Cannes (fuori concorso) anche con Highest 2 Lowest di Spike Lee. Com’è stato il passaggio da Anderson a Lee?
Sono parecchio diversi. Hanno un grande rispetto l’uno per l’altro. Entrambi hanno un’idea rigorosa del mondo che vogliono creare. Hanno una cifra perfettamente riconoscibile. Wes costruisce il set come una famiglia. L’albergo era come se fosse casa nostra. Non c’erano spostamenti, tutto era a portata di mano, dal trucco al guardaroba. E il luogo delle riprese era al massimo a cinque minuti di distanza. Lo si raggiungeva con un golf-kart.

Perché?
Non vuole perdere tempo, bisogna essere concentrati. Non ci si disperde, non si va al ristorante: c’era uno chef che cucinava per noi. E non si poteva scegliere, perché il menu era uguale per tutti. Arte e vita si mescolano, in una specie di clausura, dove ogni minuto ha il suo valore. È una famiglia operosa. In più non c’è spazio per l’ego, per i capricci da divi. Ognuno deve lasciare le sue eccentricità fuori dalla porta. Si è tutti sullo stesso piano, e questo genera una comunità piena di entusiasmo. È qualcosa di raro, da preservare.

Come mai secondo lei?
Perché si antepone il proprio ego al cinema. Però questo genera un’inefficienza, una continua dispersione. Magari un giorno passerò anche io dietro la macchina da presa, e voglio seguire questo modello. Non si può stare quindici ore sul set per avere sette minuti di riprese. Così si alimenta la confusione. Sono stato diretto da Sidney Lumet in Se mi amate, e lui non sprecava neanche un respiro. Eravamo in ufficio (ride, ndr): si attaccava alla 9 e si staccava alle 17. Sapeva perfettamente quello che doveva fare.

E Spike Lee?
Desideravo da tanto essere in un suo film. Lo conosco da sempre. Siamo cresciuti nella stessa periferia di New York, a Brooklyn. Lo vedevo per strada, siamo diventati amici. È sempre stato un uomo genuino, determinato. E quando sei con lui ti trasmette la sua energia, hai una marcia in più.