C’è un momento, in Pontifex di Daniele Ciprì, in cui il dispositivo si rivela per ciò che è: un varco. Non tanto un semplice documentario d’attualità religiosa, quanto un esercizio di attraversamento – della Porta Santa, certo, ma soprattutto di un’idea di cinema che si misura con il sacro senza farsi catechismo. Ciprì, che della nitidezza figurativa ha fatto una cifra autoriale, costruisce un film a più registri (intervista, found footage, allegoria drammaturgica) chiedendo allo spettatore di non scegliere una volta per tutte tra l’occhio e l’orecchio, tra il vedere e l’ascoltare. Perché qui la luce – Dante l’avrebbe detta “favilla, fiamma e stella” – non abbaglia: orienta.

Una lista di domande, volutamente incalzanti: dove cercare la verità? Che cosa resta dell’umano senza relazione? Il film non si sottrae all’attualità più scabrosa – tecnologia, intelligenza artificiale, “paradigma tecnocratico” – ma la tiene a distanza da facili allarmi, riportandola a una dialettica più essenziale: che cosa salva davvero, oggi, uno sguardo? In questo Ciprì fa una scelta precisa: affida la colonna vertebrale del racconto a mons. Rino Fisichella, teologo e pro-prefetto del Dicastero per l’Evangelizzazione, voce narrante che non declama verità ma mette in tensione le fragilità del presente. L’episodio personale sulla morte del nipotino – evocato non per commuovere, ma per interrogare la logica della Speranza “che ci porta a considerare la vita in maniera diversa” – radica il discorso in un’esperienza non delegabile. È la postura giusta: parlare di Dio dentro la ferita del mondo, non al riparo da essa.

Mons. Rino Fisichella in Pontifex
Mons. Rino Fisichella in Pontifex

Mons. Rino Fisichella in Pontifex

Attorno a questa dorsale concettuale, Pontifex - dopo l’anteprima alla Festa del Cinema di Roma, il film arriverà nelle sale il 24, 25 e 26 novembre con Film Club Distribuzione - innesta due linee complementari. La prima è archivistica e documentaria: dalle visite dei “Venerdì della Misericordia” di Francesco alle immagini dell’Istituto Luce e di Vatican Media, il film compone una geografia del dolore e della prossimità – ospizi, reparti per malati terminali, case-famiglia – in cui la misericordia è prassi prima che parola. La seconda è simbolica: una sezione di finzione in cui tre figure – la Speranza (Rossella Brescia), il Suicida (Cesare Bocci), il Mondo (Gianni Rosato) – fanno risuonare, per paradosso, il non detto del reale. È qui che Pontifex rischia di più: teatralizzando l’allegoria - la Speranza (Rossella Brescia) che incalza un Uomo Suicida (Cesare Bocci) e il Mondo (Gianni Rosato) - Ciprì vorrebbe sottrarla alla retorica facendone controcampo alla testimonianza.

Rossella Brescia in Pontifex (2025), foto di Francesco Marino
Rossella Brescia in Pontifex (2025), foto di Francesco Marino

Rossella Brescia in Pontifex (2025), foto di Francesco Marino

Si può discutere se questa sezione, in alcuni passaggi, non rischi la ridondanza; o se l’equilibrio tra parola e immagine non tenda talvolta a privilegiare la prima. Ma è un buon segno che il dibattito si giochi su scelte di linguaggio e non sulla legittimità dell’operazione.

75 minuti che scorrono alternando densità e sospensione, con un montaggio (qui il mestiere di Ciprì si sente) che mette in frizione i registri, lasciando respirare la parola, facendo lavorare le immagini per sottrazione. Le musiche servono a incorniciare i momenti, sottolineandone il peso emotivo. Roma, nell’anno del Giubileo, non è solo scenografia, è una mappa di snodi – quartieri popolari, spazi sacri, luoghi-simbolo – dove il pellegrinaggio torna gesto testimoniale oltre che devozionale.

La scelta di affidare a un’unica voce autorevole il filo del discorso ha un prezzo e un vantaggio. Il vantaggio è la chiarezza: Fisichella tiene il timone evitando derive apologetiche, definisce confini e apre varchi. Il prezzo è l’inevitabile centratura su una prospettiva ecclesiale che potrebbe far desiderare, a tratti, un controcanto laico più esplicito. Ma è vero anche il contrario: sono proprio i materiali d’archivio e la sezione allegorica a costituire – per immagine e linguaggio – quel controcanto. Non c’è, nel film, la paura di “sporcarsi” con l’arte: il cristianesimo non è presentato come recinto identitario, ma come grammatica possibile per leggere il contemporaneo. E questo, nel mare delle narrazioni polarizzate, è già molto.

Cesare Bocci in Pontifex (2025), foto di Francesco Marino
Cesare Bocci in Pontifex (2025), foto di Francesco Marino

Cesare Bocci in Pontifex (2025), foto di Francesco Marino

Resta da chiedersi che cosa ne viene allo spettatore. Pontifex non propone uno schema, propone un attraversamento. Mette in riga i nostri automatismi – il riflesso tecnocratico che confonde efficienza con salvezza, l’individualismo che scambia l’autodeterminazione con l’autosufficienza – e li sottopone a un semplice stress test: che cosa resta se togliamo la relazione? Non è un proclama anti-tecnologia (sarebbe anacronistico), è un invito a rifondare la gerarchia dei fini. L’intelligenza artificiale – evocata come possibilità e rischio – è, qui, l’occasione per chiedersi chi educa il desiderio e come si custodisce l’umano.

Ciprì, dal canto suo, mostra di conoscere bene il confine tra icona e iconografia. Non converte l’immagine del Papa in santino. Difende l’idea che il cinema, a certe condizioni, possa ancora essere un’arte della prossimità.

Soprattutto non finge neutralità: dichiara che un ponte – tra Misericordia e Speranza, tra Chiesa e città, tra memoria e futuro – è ancora praticabile. Tocca a noi decidere se attraversarlo.