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Nino (2025)
“Il film si svolge nel tempo sospeso tra la diagnosi e l’inizio del trattamento. È un tempo che non appartiene a nessuna cronologia: non è più la vita di prima, ma non è nemmeno quella dopo. Ho cercato una grammatica cinematografica per raccontare questa sospensione.” Così Pauline Loquès, alla minipress della Festa del Cinema di Roma, presenta Nino, in concorso nella sezione Progressive Cinema.
L’autrice, già giornalista e sceneggiatrice, parla con calma e precisione, come se volesse tradurre in parole lo stesso respiro del suo esordio alla regia. “Ho studiato film che lavorano sul tempo reale, da Cléo dalle 5 alle 7 a Oslo, 31 agosto, fino alla trilogia di Linklater, Before Sunrise, Before Sunset, Before Midnight. Mi interessava capire come si costruisce un ritmo alternato, dove il tempo si dilata e poi accelera, come nella vita, quando una mattina sembra infinita e la sera passa in un lampo.”
Da qui nasce la struttura del film, “un fine settimana che scivola via tra lentezza e accelerazioni”, e uno sguardo che resta sempre accanto al protagonista, ma senza imprigionarlo. “Dicevamo sempre: dobbiamo sentirci con lui, ma non per forza attaccati a lui. Per questo ci sono momenti in cui la macchina da presa si allontana, come quando Nino esce dall’ospedale e comincia a camminare per la città. Abbiamo scelto un lungo zoom, istintivo ma giusto, per raccontare la sua solitudine in mezzo agli altri.”
Parigi come personaggio
La città, in Nino, non è sfondo né cartolina. È un corpo vivo che reagisce, resiste, interferisce. “La Parigi che conosco io non è quella da cartolina: vivo nei quartieri del nord-est, più popolari, non belli nel senso classico ma, per me, pieni di bellezza reale. Ho voluto mostrare questa città che non si adatta mai al mio stato d’animo: quando sono felice, qualcosa si rompe; quando sono malinconica, vedo un ponte che mi riconcilia con il mondo.”


Pauline Loquès
Il rapporto tra Nino e Parigi è lo stesso: “La città non prova pietà per lui. A volte è amica, a volte nemica. Ma fa parte del processo: come si integra una nuova realtà, come la malattia entra nella vita di tutti i giorni? Il rumore dei lavori, del traffico, della metro, delle persone - è il rumore della vita, e per me era fondamentale che entrasse nel film.”
Il suono come percezione
Anche il suono segue la percezione emotiva del protagonista. “Abbiamo lavorato molto sulla dimensione sonora, perché è anche la percezione di Nino: il suo sentirsi parte del mondo o separato da esso. Passa molto tempo a cercare rifugio - nelle toilette, negli angoli - ma il rumore degli altri non lo abbandona mai. È un rumore che lo protegge e lo perseguita insieme.”
Loquès racconta di aver costruito il paesaggio sonoro come una serie di “bilance percettive”: “A volte sei in un caffè e il traffico ti interrompe, altre volte sei così assorto in una conversazione da dimenticare tutto. È così anche per Nino: ci sono momenti in cui sente gli altri, e altri in cui non li sente più. Abbiamo voluto che il pubblico fosse con lui in questa oscillazione.”
Théodore Pellerin, la forza del pudore
Per incarnare Nino, la regista ha scelto Théodore Pellerin, giovane attore canadese dal “carisma smisurato”. “Mi serviva qualcuno che potesse tenere lo schermo per un’ora e mezza senza “fare” troppo. Gli ho detto di non sottolineare nulla, di lasciare spazio agli altri personaggi. È una presenza forte e fragile allo stesso tempo, quasi spettrale: non è consapevole di sé, e proprio per questo genera empatia e fascinazione. Il pubblico vuole proteggerlo, anche se lui non chiede niente.”


Théodore Pellerin
Attorno a lui, un cast di presenze discrtete: William Lebghil, Salomé Dewaels, Camille Rutherford, Estelle Meyer, Jeanne Balibar nei panni della madre, e una breve apparizione di Mathieu Amalric. Fotografia di Lucie Baudinaud, montaggio di Clémence Diard, musiche originali di Flore Laurentienne e brani di You!, Foals, Fontaines D.C..
La dedica e il ritorno alla realtà
Il film si chiude con una dedica che sposta il piano dal racconto alla vita reale. “L’ho pensata fin dalla scrittura. Nino nasce da una perdita personale, da un giovane uomo della mia famiglia morto di cancro. In montaggio ho esitato, temevo fosse troppo intimo, ma la mia montatrice, Clémence, che aveva appena perso qualcuno, mi ha detto: “Fa parte del film, devi lasciarla”.
Loquès, che viene dal giornalismo, vede in quel gesto “un ponte tra reale e finzione. Parto dalla realtà per creare una storia di finzione che mi serve come rifugio, ma alla fine torno alla realtà per dare speranza a chi vive la stessa esperienza. Ogni volta che vedo la fine del film mi ricordo perché l’ho fatto”.
In Nino, il dolore non diventa mai spettacolo. È una materia viva, raccontata attraverso le sue incrinature: “La vita non si ferma mai davvero. Anche quando tutto sembra sospeso, c’è sempre qualcosa che insiste, che fa rumore, che ci ricorda che siamo ancora qui.”