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Peter Hujar's Day
Come si fa un film trascrivendo una conversazione? Una conversazione che peraltro è anche un atto mancato: un’intervista mai pubblicata al fotografo Peter Hujar, realizzata nel dicembre 1974 dalla scrittrice Linda Rosenkratz per un libro in cui chiedeva ai suoi amici – tutti legati al circuito artistico della New York degli anni Settanta – di raccontare la loro ultima giornata. “Ho come l’impressione di non fare niente tutto il giorno, perciò vi chiedo com’è stata la vostra ultima giornata per capire cosa fate” è l’intenzione programmatica di una delle autrici fondamentali della non-fiction americana.
Il volume non si fece, la registrazione di quella giornata andò perduta, finché una trascrizione è riemersa quasi mezzo secolo dopo negli archivi di Hujar e pubblicata nel libro Peter Hujar’s Day, da cui appunto il film di Ira Sachs. Ma, ancora, come si fa un film da una conversazione?


Peter Hujar's Day
Si fa dando consistenza alle parole e lasciando che si rivelino in uno spazio che è concreto e trasfigurato: la casa di Hujar, uno dei massimi fotografi del secondo Novecento nel catturare la vulnerabilità delle persone (è opera sua l’“Orgasmic Man” sulla copertina di Una vita come tante), organizzata tra interni con pedane rialzate e esterni spalancati sulla città, è evidentemente anche un set con gli operatori in azione l’obbiettivo.
Si fa delegando alla luce il senso del tempo che passa: il resoconto di ieri, cioè quello che Hujar racconta a Rosenkratz; il giorno che sfuma nella notte; e il tempo di un’America bohemien o pigramente maudit, dove Hujar, a casa di Allen Ginsberg per uno shooting, si imbatte in William Burroughs che gli chiede un “servizietto” o può ricevere la telefonata di Vince Aletti in cerca qualcuno che lo ospiti per una doccia calda.
È un laboratorio: sulla luce che si scalda e si rabbuia tagliando i volti e le stanze; sulle immagini che plasmano un passato perduto come una pellicola ritrovata o un rullino scaduto (la fotografia è di Alex Ashe); sulla misura del racconto che non cerca scorciatoie e non dilata le ore (poco più di settanta minuti) ma si mette al servizio dell’incontro da condividere con il prossimo, della confidenza che non ha bisogno di appendici, della capacità di immortalare un attimo e un mondo (il montaggio è di Affonso Gonçalves).


Peter Hujar's Day
È un laboratorio di regia: Sachs – il cui film è anche un omaggio a un milieu culturale di cui ha vissuto il crepuscolo segnato dall’AIDS – mette al centro le parole e non rinuncia a innamorarsi dei volti dei protagonisti, dei divani dove si spalmano chiacchierando con la naturalezza degli amici, dei letti che occupano scambiandosi carezze, delle tavole illuminate da candele che fanno somigliare la sala da pranzo a un sepolcro laico.
Ed è un laboratorio sulla recitazione: sulla potenza minimalista dei piani d’ascolto, delle frasi preziosamente centellinate, dei sorrisi disarmanti di Rebecca Hall; e sul magnifico controllo della voce che enuncia i fatti e al contempo include i commenti più maliziosi dicendo senza dire per rispondere a se stesso e all’amica, sul carisma sconfinato perché antiretorico e tutto in sottrazione di quel gigante di Ben Whishaw. Un magnifico passo a due per un film nostalgico e asciutto, rilassato e malinconico, affettuoso e spettrale, presentato nella sezione Freestyle della XX Festa del Cinema di Roma.