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Bacurau
Quando negli anni Ottanta si conclude per la teoria del film la stagione della psicoanalisi, molti studiosi si trovano di colpo senza una piattaforma epistemologica a cui fare riferimento.
Nel ’96 Bordwell e Carroll, da tempo polemici nei confronti della “Grand Theory” (secondo loro troppo legata all’analisi ideologica e troppo poco attenta alle forme del testo filmico) ne dichiarano la fine, adeguandosi al nichilismo pop alla “fine della storia” proclamata da Fukuyama.
È una mossa un po’ disperata: sbirciando al di là delle rifrazioni dello specchio lacaniano e vedendo oltre la curva del millennio un mondo ormai sul punto di esplodere, dopo una decennale caduta libera (così scrivono Nagib, Perriam e Dudrah in Theorizing World Cinema), la teoria del cinema prende in prestito dalla fenomenologia e dalla biopolitica un modello di soggetto coerente con il contesto in rapida trasformazione: un soggetto aperto e contraddittorio, “incarnato” nella crisi del corpo, consapevole del proprio relativismo culturale e dell’esistenza di un’alterità.
Nasce una nuova teoria sperimentale, questa volta tutta con la minuscola, composta cioè da domande più piccole e ricerche legate alla pratica ermeneutica, al confronto con il campo, al “pensiero debole” (che era già in circolo da più di dieci anni): casi studio, generi, cinematografie nazionali, arricchiti da prospettive femministe, queer, minoritarie e postcoloniali.