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Still Life (2006), @Webphoto
Debutta a Venezia 82 come un piccolo laboratorio pubblico della visione: non un talk, non una lezione, ma un tentativo d’osservazione del presente attraverso le immagini del passato prossimo. In quindici minuti, due film in dialogo e due ospiti: tre piani ricorrenti – memoria, conflitto e sfera di cristallo – e le clip in sovrimpressione come residui d’immaginario: stanno ancora lì e interrogano. L’assunto, semplice: se il cinema è stato, per un quarto di secolo, il nostro acceleratore di realtà, oggi possiamo domandargli che cosa resta, cosa si è trasformato, cosa intravvediamo davanti a noi?
Il debutto di C’era una volta il futuro – live e su YouTube - si colloca dentro Che Spettacolo!, il fuori-festival ideato da Fondazione Ente dello Spettacolo con Corriere della Sera: una piazza di confronto che ricuce la visione con la cittadinanza culturale, alternando dialoghi, restituzioni editoriali, momenti formativi. Dentro un’idea della sala cinematografica – a Venezia e altrove –come luogo di responsabilità: si ascolta, si argomenta, si restituisce senso. Il format nasce per servire questa soglia, come un dispositivo agile di lettura critica che accompagna, senza sovrastarle, le traiettorie della Mostra.


La La Land (2016)
Il titolo volge all’indietro per poter guardare avanti. L’operazione è coerente con il dossier in tre tempi che la Rivista del Cinematografo dedica ai primi venticinque anni del secolo: La frattura e il riflesso (settembre), Ricomporre l’immaginario (ottobre), Specchio italiano. Non un canone, ma una mappa parziale, dove pesano tanto premi, incassi, “impatti”, quanto i sedimenti più sfuggenti: un’inquadratura che resta, una figura che ancora ci abita. In fondo, “un quarto di secolo ti dà da pensare”: il tempo interposto non si cancella, decanta. Il nostro format è controcanto veneziano (sono film passati alla Mostra) e “dal vivo” di questo progetto cartaceo: ne assume il respiro lungo, lo mette alla prova davanti al pubblico, lo trasforma in conversazione.


Shame (2011)
Ogni puntata un asse: guerre e media, memorie di piombo, corpi reinventati e nomadi, pandemie e distopie, solitudini cosmiche, nostalgie musicali e rabbia pop, desideri proibiti, fedi deviate, nuove estetiche. Non “panieri” tematici, ma linee di forza dell’immaginario: la militarizzazione dello sguardo e la sua spettacolarizzazione; la clandestinità che diventa archivio; il corpo come software aggiornabile; la biopolitica del contagio; la grammatica non lineare del tempo; la collera che si fa simbolo, politica e mercato; l’intimità sotto assedio; il sacro come terapia o escatologia; infine i linguaggi che emergono dai margini e spostano il centro.
Il cinema, così, torna sismografo: registra, anticipa, a volte corregge. E noi proviamo ad ascoltarlo nel suo gesto più semplice e più complesso: mettere in relazione.


First Reformed (2017)
Niente oratoria, niente sintesi assertive: una domanda, un’immagine, un’ipotesi. È un lavoro di apertura più che di chiusura: il sapere si offre in forma di percorso, non di enunciato. Così il format compie, in scala, ciò che Che Spettacolo! ambisce a fare su un piano più ampio: mettere in circolo visioni, parole, responsabilità; fare ponte fra Mostra e città, professionisti e spettatori, mercato e ricerca.


Nomadland (2020)
Il legame con lo speciale di settembre non è solo tematico, ma metodologico. Là, sulle pagine della Rivista, il quarto di secolo è indagato come doppio movimento – il cinema che riflette le fratture del mondo e il mondo che riformatta il cinema; qui, nel vivo della rassegna, quegli stessi vettori diventano esperienza condivisa: si rivedono sequenze, si riattivano discorsi, si espongono le nostre abitudini di sguardo alla prova del presente. High e low, autori e franchise, centri e periferie: non opposizioni ma campi magnetici. L’immaginario, che credevamo compatto, si rivela poroso, attraversato da flussi che la critica deve nominare e allo stesso tempo lasciare respirare.


I figli degli uomini (2006)
Che cosa resta, allora, “del futuro” in questo passato recente? Forse la scoperta più semplice: il futuro non è un orizzonte, ma una pratica di montaggio. Si monta tra un film e un altro, tra una memoria e un’urgenza, tra un gesto e una parola. E si monta insieme: istituzioni e testate, autori e lettori, spettatori e cittadini. È in questo patto – fragile e operoso – che C’era una volta il futuro trova la sua ragione d’essere: riaprire il cinema al suo destino comunitario, perché il domani delle immagini non ci accada addosso, ma ci trovi responsabili. A Venezia, in una piazza, davanti a uno schermo acceso.