Sgombriamo il campo da un equivoco.

L’autore è stato sempre considerato l’origine (estetica, ma anche psicologica) dell’opera. L’autore è stato sempre pensato come colui che viene prima dell’opera. Una sorta di istanza generativa ideale. Invece, ciò che viene prima è sempre l’effettività dell’opera. E l’autore ad essere generato da questa. L’autore viene dopo. E non solo perché è generato dallo sguardo critico, che lo “ritaglia” dall’insieme delle competenze che sono in gioco in un’opera collettiva come un film (in alcuni casi, l’autorialità potrebbe spostarsi verso l’attore, pensiamo ai film di Totò), ma perché l’autore è un principio di determinazione, che permette di istituire una schematizzazione critica ed estetica della singolarità dei film.

Questo è possibile solo se i tratti che definiscono le opere sono allo stesso tempo esteticamente identificati e originali. Questi tratti possono essere stilistici, quando i film rielaborano formanti più generali, come per esempio i generi nella grande tradizione hollywoodiana (pensiamo a The Lubitsch Touch), o più complessivi quando i nomi propri dei registi identificano veri e propri mondi autoriali. In questo secondo caso, parlare d’autore significa poter usare in senso aggettivale il nome proprio: felliniano, wellesiano ecc.

Abbonati alla Rivista del Cinematografo per continuare a leggere