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Michelle Yeoh in Everything Everywhere All at Once (credits: Courtesy of A24)
Nel cinema occidentale contemporaneo si sta assistendo a uno sfaccettato fenomeno di ibridazione della forma che sancisce una vera e propria rivoluzione nel concetto di genere cinematografico in quanto tale. Dal cinema d’autore europeo ai blockbuster hollywoodiani sempre più spesso ci troviamo di fronte a prodotti che si presentano al mercato come ibridi spudorati.
Non è più tanto il caso di una rilettura autoriale del cinema di genere, esperimento già iniziato tra gli anni sessanta e settanta da autori del calibro di Stanley Kubrick, Andrej Tarkovskij o Michelangelo Antonioni: piuttosto che utilizzare un genere quale horror e la fantascienza come spunto per trattare la condizione umana in un contesto narrativamente più libero dalle pastoie del realismo, negli ultimi anni abbiamo assistito a un discorso all’interno del genere stesso, non per nulla a tratti metafilmico, destinato a superare le categorie tradizionali con cui critici e spettatori indicizzano i film, per liberare l’ambizione narrativa e tematica di opere che si situano consapevolmente a un crocevia di generi, stili e target di pubblico differenti.