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Danny Boyle a Roma - Luca Dammicco - Accademia del Cinema Italiano
“Quando abbiamo fatto 28 giorni dopo, nel 2002, c’era un senso vago ma crescente di paura. Non era ancora la pandemia, ma il timore del contagio, la crisi globale dopo l’11 settembre, il senso che il nostro mondo potesse disgregarsi rapidamente. Vent’anni dopo, quel mondo si è disgregato davvero, in modi che allora non potevamo nemmeno immaginare”.
Danny Boyle è a Roma per presentare 28 anni dopo, il primo film di una nuova trilogia che torna nel mondo del Virus della Rabbia. Ma il tono del suo racconto non è nostalgico, né celebrativo. Piuttosto, è inquieto. Se 28 giorni dopo aveva anticipato le paure del nostro secolo, 28 anni dopo le raccoglie dopo che sono esplose.


Per capirlo davvero, bisogna tornare indietro. 28 giorni dopo era — lo sappiamo ora — un film su come la paura può essere più virale del virus. Non era solo un horror pandemico: era una diagnosi precoce del XXI secolo, che stava già infettandosi di sospetto, ansia, paranoia. Il trauma post-11 settembre aleggiava ovunque: il vicino diventava pericoloso, le città si svuotavano, i governi perdevano presa. E quei corridori forsennati — infetti ipercinetici, incapaci di contenere la propria furia — erano il nostro doppio isterico. Cinque anni dopo, 28 settimane dopo rilanciava: se il primo parlava della paura, il secondo parlava della gestione della paura. Della burocrazia armata che promette ricostruzione e produce solo nuovo caos. Era la metafora fin troppo limpida del dopoguerra iracheno: esportare sicurezza, importare disastro.
“Viviamo già da anni dentro questa catastrofe lenta. La pandemia ha reso reale ciò che prima era solo immaginazione. E la Brexit ha chiuso ulteriormente il nostro Paese in una bolla isolata dal resto del mondo.”


Il film — scritto ancora da Alex Garland (Ex Machina, Annihilation, Civil War) — ci porta in un’Inghilterra ormai sigillata, abbandonata dal mondo dopo la diffusione della Rabbia. Un’isola che ha fatto dell’isolamento non solo una condizione geografica, ma una scelta culturale. Dove piccole comunità hanno costruito nuove forme di controllo, e la normalità si è ristretta al perimetro del proprio recinto.
“L’Inghilterra ha scelto di sopravvivere smettendo di vedere: i propri morti, i propri errori, il proprio passato. Esattamente come dopo la Brexit”.


Su Holy Island, isola fortificata già nel nome un rifugio sacro, vivono Jamie (Aaron Taylor-Johnson), sua moglie Isla (Jodie Comer) e il figlio Spike (Alfie Williams). La società è tribale, rigidamente sorvegliata. I ragazzi vengono educati a cacciare gli infetti: una sorta di rito di passaggio in chiave distopica. Ma quando Isla si ammala — non di virus, ma di qualcosa di più silenzioso e definitivo — la famiglia è costretta ad avventurarsi nel continente devastato, dove il virus ha prodotto nuove mutazioni.
“Non potevamo semplicemente rifare gli infetti del primo film. Sarebbe stato noioso. Abbiamo immaginato cosa succede a un virus in ventotto anni: evolve, si trasforma, produce nuove creature. Come la natura: trova sempre un modo per andare avanti, anche quando diventa orrendo”.
L’Inghilterra che Boyle porta ora sullo schermo è letteralmente irriconoscibile: la natura ha riconquistato lo spazio, le città sono inghiottite dal verde, e silenzi irreali vengono interrotti da esplosioni improvvise di violenza. La mutazione è biologica, ma anche politica e sociale. I nuovi infetti — slow-lows, alpha, berserker — sembrano caste darwiniane: il virus ha creato famiglie, gerarchie, sistemi interni. La sociologia dell’abisso. “Quando la paura si cronicizza, diventa sistema. E il sistema produce nuove forme di potere. L’ho visto accadere nel mio Paese”.
Il nucleo emotivo resta la famiglia. Garland e Boyle riscrivono l’horror come dramma familiare, dove la malattia diventa l’allegoria della perdita, dell’impossibilità di proteggere chi amiamo. La tragedia privata come microcosmo dell’orrore collettivo. Ma 28 anni dopo è anche, come spesso con Boyle, un laboratorio visivo. Il regista ha spinto ancora oltre la sperimentazione tecnica. “Per alcune sequenze abbiamo usato venti iPhone montati insieme, per creare prospettive impossibili. Non volevamo solo mostrare l’orrore: volevamo che lo spettatore fosse dentro l’orrore, immerso”.
Accanto a questa scelta radicale, Boyle e il direttore della fotografia Anthony Dod Mantle hanno adottato il formato ultra-panoramico 2.76:1, insolito per un horror. Come se il quadro stesso tremasse per contenere ciò che racconta. “Il Virus, in fondo, è sempre stato una metafora. Prima della paura, oggi dell’isolamento. L’Inghilterra è diventata una metafora perfetta: un Paese che si chiude, che non guarda, che sopravvive dimenticando chi è stato”.


Non mancano suggestioni simboliche potenti, come l’incontro con il dottor Kelson (Ralph Fiennes), medico sopravvissuto che ha costruito un ossario monumentale. Un tempio di ossa che onora i morti senza distinzione: infetti e sani, tutti vittime dello stesso disastro. “Kelson accetta la morte: la guarda negli occhi, senza ipocrisia. In un certo senso, è l’unico personaggio pacificato.”
Con 28 anni dopo Boyle inaugura quella che sarà, nelle sue intenzioni, una trilogia. Dopo vent’anni di film sempre diversi — l’Oscar per The Millionaire, le sperimentazioni di Steve Jobs e Yesterday — torna al mondo che più ha definito il suo immaginario. “Amo l’idea che il cinema sia ancora un’esperienza collettiva, fisica. Specialmente l’horror: c’è qualcosa di profondamente umano nel condividere la paura in sala.”
A ventotto anni dal primo contagio — sarebbero 23 a contarli con il calendario reale — il Virus della Rabbia non è mai sembrato così vicino. Non più come incubo futuribile, ma come riflesso inquietante del presente.